Annotazioni sui sogni “esistenziali”
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Fonte : Annotazioni sui sogni sogni “esistenziali” di Mario Mulè
Agli albori del Novecento, S. Freud si accingeva a scrivere la sua opera fondamentale “ L’interpretazione dei sogni” e non riusciva a nascondere l’entusiasmo per la sua scoperta, lo svelamento, che gli era riuscito, del mistero dei sogni che da secoli interrogava l’umanità.
Come per altre geniali intuizioni, si trattava di una prima esplorazione di un mondo complesso, che era destinata ad arricchirsi di altre scoperte, di verifiche, di aggiunte e di correzioni.
Senza entrare nei particolari di questo percorso che ha visto come protagonisti, tra gli altri, Jung, Kohut ma anche cultori di neuroscienze, si può affermare che lo stato dell’arte consente alcune convergenze:
1. Il linguaggio del sogno è di tipo metaforico;
2. una importante funzione del sogno consiste nel solidificare ed organizzare la memoria degli eventi;
3. nei sogni vi è un tentativo di trovare una soluzione a problemi che hanno notevole valore per il soggetto;
4. i sogni sono un tentativo di raccontare “ lo stato del sé ” e quindi possono consentirne la conoscenza;
5. più che sul supposto significato latente, è utile concentrarsi su ciò che appare ( immagini, emozioni) considerandole come componenti di una tematica che aspira ad essere raccontata.
Liotti ammonisce di non cadere nella trappola di un pensiero costruttivista radicale che ritiene la lettura di un sogno una co-costruzione, una narrazione condivisa.
Invita i terapeuti a considerare l’esperienza emozionale come focus dell’attenzione, individuando quella ispiratrice del sogno tra le emozioni “ evoluzionisticamente determinate” e più specificamente nei sistemi interpersonali ( sistema dell’attaccamento, agonistico, di accudimento, sessuale, cooperativo.)
Note sui “Disturbi d’ansia”
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Fonte : “Note sui disturbi d’ansia” di Mario Mulè
Nel nostro linguaggio si trovano parole che includono uno spettro di significati molto ampio, con differenze tali tra di loro da far venire il dubbio sulla opportunità di utilizzare un’unica parola per realtà così diverse fra di loro.
Un esempio ci viene offerto dalla parola “ amore”, un altro – che ci riguarda più da vicino – dalla parola “ ansia”.
Alla voce ansia, nel vocabolario della lingua italiana Treccani, troviamo: “ forte agitazione dell’animo per desiderio, attesa, o per timore e preoccupazione; stato di affannosa incertezza…”
Che si tratti di emozioni diverse si deduce anche dalle esemplificazioni: “ ansia di gloria”, “ stare in ansia per qualcuno”: non sono proprio la stessa cosa!
Il DSM, come sappiamo, ha istituito un capitolo sui disturbi d’ansia, mettendo insieme vari quadri clinici accomunati da questo sintomo, che peraltro non viene definito.
Facendo questa scelta, ha abbandonato il termine nevrosi, fino a qualche anno fa in uso per indicare un’area in parte sovrapponibile.
Cosa ha guadagnato, e cosa ha perso, la psichiatria con questa nuova impostazione? Senza entrare in maniera articolata nel tema, mi limito a segnalare quanto dichiara F. Giberti:
“ In conclusione, da questa rivoluzione odierna che ha interessato il capitolo delle nevrosi, si riceve l’impressione che si sia guadagnato poco…Molto, forse, con questa nosologia descrittiva, è stato perduto nella comprensione di questa grande area della condizione umana…( si deve registrare infatti ) la caduta di consistenza in quanto automi di quadri in realtà generici e poliedrici come gli attacchi di panico. La stessa differenza tra nevrosi e disturbi di personalità sta diventando discutibile. Si riafferma anche l’esigenza di vedere le nevrosi dal punto di vista del loro significato in quanto messaggio psicologico, non tenendo conto del quale la terapia tende a diventare problematica ed incompleta.”
Sono trascorsi oltre dieci anni da quando Giberti proponeva le sue riflessioni critiche. In questi anni il paradigma categoriale e l’impostazione nosografia hanno finito per espandersi, contaminando sempre di più l’approccio clinico, in una sorta di sudditanza culturale verso la psichiatria ufficiale nord-americana, coprendo con un velo di oblio il patrimonio ricco di riflessioni sul metodo e di profonde intuizioni cliniche che la psichiatria europea di ispirazione fenomenologia e psicoanalitica ci hanno consegnato. Ci si è abituati sempre di più a confrontarsi con il paziente sofferente facendo leva con un paradigma semplificante e riduttivo, che rischia di dimenticare il disperato bisogno di senso che l’altro ci chiede.
Il paziente merita di meglio e di più di una etichetta diagnostica, peraltro di dubbio valore scientifico e sostanzialmente convenzionale, e di una prescrizione farmacologia.
Sono, queste operazioni, utili e necessarie in molti casi; è forse inevitabile che la nostra mente trovi qui un primo ancoraggio ed un primo ordinamento; purché non si rimanga imprigionati in questo primo momento e si proceda oltre.
Uno dei modi per andare oltre nel confronto clinico con la patologia psichiatrica è quella di fare riferimento, anziché a categorie nosografiche, ad “ordinatori psicopatologici”.
Ballerini e Stanghellini definiscono gli organizzatori psicopatologici come “ organizzatori di senso, cioè schemi di comprensione tendenti a connettere le differenti esperienze psicopatologiche di una persona in un unitario universo di significato”.
Privilegiare organizzatori psicopatologici non significa negare l’utilità di organizzatori nosografici, ma vuole indicare una congruenza ed una utilità maggiori degli organizzatori psicopatologici nell’ambito terapeutico, collocando gli altri prevalentemente nell’area della ricerca, come del resto esplicitamente dichiarato dagli estensori del DSM IV.
La frequentazione quotidiana con i pazienti affetti dai cosiddetti disturbi d’ansia mi ha suggerito la possibilità di individuare almeno tre organizzatori psicopatologici. Essi sono: 1) l’angoscia di morte; 2) la vergogna; 3) l’angoscia di separazione e di perdita.
Disagio giovanile e Comunità
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Fonte: “Disagio giovanile e Comunità” di Mario Mulè (Catania, 01.12.2010)
Dobbiamo ammetterlo: quando il nostro sguardo di operatori e di studiosi della psiche si allontana dall’individuo e dalla famiglia; quando tenta di scrutare oltre il piccolo gruppo, si rivela offuscato, appannato. Potremmo anche dire, utilizzando una metafora, che soffriamo di miopia e perciò la vista di scenari ampi e complessi si rivela incerta, confusa.
Il patrimonio di conoscenze che si è accumulato in quest’ultimo secolo con il lavoro di Freud e della psicoanalisi e negli anni successivi con i contributi della terapia familiare, della cognitivo comportamentale, delle stesse neuroscienze hanno ampliato certamente l’esplorazione del soggetto e della sua vita mentale quale si sviluppa e si realizza nei contesti intrapsichici ed interpersonali, ma solo raramente sono stati offerti squarci di luce che illuminassero le fitte correlazioni e direi anche le matrici costitutive che lo legano al sociale e che fin dal momento della nascita fondano il soggetto, promuovendone la salute o provocandone limitazioni e sofferenza.
Nella storia dell’uomo altri hanno tentato di assolvere a tale funzione: e sono stati i filosofi, i tragici greci, le religioni, i profeti.
Ma chi erano i profeti? Contrariamente al senso che comunemente si dà a questo termine, profeta non è colui che prevede il futuro, non è l’indovino che annuncia gli eventi che incombono su una comunità. Il profeta è colui che guarda al presente dell’uomo, scruta il senso del suo vivere e la sua parola ci parla del vivere bene e del vivere male, del “ben-essere” e del “ mal-essere”.
Umberto Galimberti, quando scrive “ L’ospite inquietante”, si pone come un profeta, Erich Fromm è stato tenacemente profetico per tutta la sua vita non solo scrivendo libri ma accettando di parlare in una serie di conversazioni radiofoniche rivolte al popolo tedesco su tematiche attuali e drammatiche quali il nazismo, la distruttività umana, il dominio del superfluo, etc.
Profetico voleva essere Carlo Marx, nella sua vocazione umanistica e nella sua esigenza di liberazione dell’umanità, al di là delle indicazioni politiche e soprattutto delle sue traduzioni aberranti e disumanizzanti.
Psicosi e Arte
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Fonte: “Psicosi e Arte” Mario Mulè
“ S’era veduta assaltare nel silenzio da uno strano terrore improvviso, che le mozzava il respiro e le faceva battere in tumulto il cuore… allora la compagine dell’esistenza umana… priva di senso, priva di scopo le si squarciava per lasciarle intravedere in un attimo una realtà ben diversa… impassibile e misteriosa, in cui tutte le fittizie relazioni consuete di sentimenti e di immagini si scindevano, si disgregavano…”
“ Le avveniva spesso, meditando, di fissare lo sguardo sopra un oggetto… a poco a poco, quell’oggetto le s’imponeva stranamente; cominciava a vivere per sé… e si staccava da ogni relazione con lei stessa e con gli altri oggetti intorno.”
“ Certe volte, innanzi allo specchio… alzava una mano nell’incoscienza; e il gesto le restava sospeso. Le pareva strano che l’avesse fatto lei. Si vedeva vivere… si assomigliava ad una statua di antico oratore ( non sapeva chi fosse ) veduto in una nicchia…”
“ In quell’attimo terribile… provava tutto l’orrore della morte e con uno sforzo supremo cercava di riacquistare la coscienza normale delle cose, di riconnettere le idee, di risentirsi viva.
Ma… a quel sentimento solito della vita non poteva più prestare fede… sotto c’era qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi se non a costo di morire o di impazzire.”
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Se provassimo a sottoporre la descrizione di queste esperienze ad uno psichiatra, chiedendogli di formulare una prima ipotesi diagnostica, molto probabilmente sospetterebbe un disturbo di Depersonalizzazione ( F 48.1 del DSM IV ).
Potrebbe aggiungere che tale disturbo può costituire una sindrome a sé stante, oppure ( seguendo le istruzioni del DSM ) potrebbe far parte di una sintomatologia riferibile a schizofrenia, disturbo di panico o altro disturbo dissociativo.
Se di formazione fenomenologia, probabilmente penserebbe alla “ perdita dell’evidenza naturale” descritta da Blankenburg.
Il clinico tuttavia dovrebbe ancora tenere conto dell’avvertenza del DSM, che ci avvisa che “ la depersonalizzazione è un’esperienza comune, e questa diagnosi dovrebbe essere posta solo se i sintomi risultano sufficientemente gravi da causare marcato disagio o menomazione nel funzionamento”.
In realtà non si tratta di materiale clinico, ma di frammenti di un romanzo di Pirandello, dal titolo “ Suo marito”. E’ la descrizione di vissuti di una scrittrice, che i critici del tempo hanno identificato in Grazia Deledda, ma verosimilmente appartenenti allo stesso Autore, che già negli anni giovanili si soffermò a lungo a riflettere sulla propria poetica, definendola “ umoristica” e indicando nel fenomeno della depersonalizzazione ed in quello della dissociazione ( da lui intesa come analisi minuziosa e spregiudicata di tali vissuti ) i momenti fondamentali.
Mindfulness e Psicoterapia
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Fonte: Recensione e commento a “Mindfulness e Cervello” (2009) di D. Siegel a cura di Vito Petruzzellis
Le considerazioni qui riportate prendono spunto dalla sollecitazione espressa da Siegel nel suo ultimo volume “Mindfulness e Cervello” (2009), sulla utilità di integrare la meditazione all’interno delle pratiche psicoterapeutiche.
Questa problematica è affrontata da Siegel a partire dal racconto della sua esperienza diretta di partecipante ad una esperienza di pratica meditativa, e attraverso l’approfondimento delle questioni in un modo scientificamente fondato.
Offre così la possibilità non usuale di assistere al confronto tra il Siegel scienziato e terapeuta ed il Siegel persona, con le sue particolarità, le sue difficoltà, ed anche il suo bisogno di relazione e di conoscenza.
Provo a sintetizzare.
La concettualizzazione di Siegel si muove intorno a due cardini basilari del funzionamento mentale:
l’ integrazione mentale e la consapevolezza mindful.
L’autore sostiene infatti che la mindfulness, – orientamento scientifico che si richiama alla tradizione meditativa Vipassana, derivante dalla tradizione buddhista Thervada, integrata con la psicologia cognitiva di Aaron Beck – si rivela in grado di favorire le funzioni integrative della mente sia in ambito fisiologico che patologico.
Per descrivere le caratteristiche dell’ integrazione mentale fa ricorso alla metafora della ruota.Nel senso che i raggi rappresentano i tanti e diversi canali percettivi, mentre il mozzo ha la funzione di connetterli centralmente con le emozioni, i pensieri, le conoscenze, integrando i diversi aspetti propri della coscienza individuale e mantenendo al tempo stesso un asse di stabilità e di coerenza unitaria. Continua..