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Rileggendo Rogers

di Mario Mulè

                                                                                                    

Si può guardare lo sviluppo del pensiero psichiatrico degli ultimi 150 anni in tanti modi diversi.

Uno di questi può scegliere di mettere a fuoco quale sorte abbiano avuto alcune proposte originali ed innovative. Si potrà constatare che alcune sono state accolte con interesse ed hanno avuto lunga vita, mentre altre (potenzialmente utili per la clinica) non hanno avuto una sorte altrettanto fortunata. (1)

Può essere toccata la stessa sorte a Carl Rogers? E’ certo che di lui si sono perse le tracce ed anche voluminosi trattati di psichiatria lo ignorano del tutto. (2)

Tuttavia mi sembra che oggi, nel vasto panorama della Psichiatria, sia possibile rintracciare diversi spunti che possono dare qualche sostegno a quanto sostenuto da questo Autore.

L’accoglienza incondizionata del cliente è rimasta una delle condizioni fondamentali per un positivo percorso terapeutico. Rogers non ha mai messo in discussione questa convinzione e l’ha sempre considerata uno dei cardini necessari per una terapia efficace. Una relazione ove sia presente un’accoglienza incondizionata è quella che si realizza (quando tutto evolve per il meglio) nel rapporto di una madre con il suo bambino. E’ un fenomeno naturale, comune a tutti i mammiferi. Conosciamo poco cosa si verifica nell’organismo di una madre in occasione del parto.

Dobbiamo accontentarci di riconoscere l’attivazione di meccanismi detti epigenetici, sia nella madre che nel bambino, di cui conosciamo ancora poco.

Sappiamo però che  una relazione in cui siano dominanti le cure, il calore, la protezione del piccolo ha effetti benefici che durano tutta la vita.

Non sempre però vi è una condizione così favorevole: esiste anche una “depressione post partum”, dove domina nella madre la paura del fallimento. Se Rogers avesse scoperto che il bisogno di una relazione amorevole rimane dentro ognuno di noi per tutta la vita? Se questo bisogno di cure amorevoli persiste in ognuno di noi e ci porta a cercarlo, ora con fiducia, ora con paura e preoccupazione?

Se fosse una delle caratteristiche presenti nella natura dell’uomo, ed anche la base della compassione come ipotizzano i buddisti? (3)

E’ ragionevole porsi una tale domanda, ma non è possibile fornire una risposta sicura.

Possiamo però constatare che l’esistenza di questo desiderio, (di questo “bisogno”) è stato riconosciuto come un aspetto fondamentale dell’uomo dalle principali tradizioni spirituali. Possiamo considerarlo come una delle forze fondamentali (non certo l’unica) che muovono l’uomo in questo mondo.

L’accettazione incondizionata del cliente è dunque per Rogers un aspetto fondamentale del trattamento terapeutico. Credo che la stessa idea sia presente nella teoria polivagale, dove si è arrivati a dire che la sicurezza percepita dal cliente è la terapia. (4)

Porges è riuscito a scoprire attraverso quali strutture cerebrali e quali circuiti ciò può avvenire, indicando anche i fenomeni fisiologici (mediati dal sistema nervoso neurovegetativo) che si verificano quando ci troviamo in una condizione sicura nel rapporto con l’altro.

                                                                                                                                           

La teoria polivagale può anche fare chiarezza di un altro fattore che Rogers considerava indispensabile, e cioè l’autenticità del terapeuta.

Secondo la teoria polivagale l’autenticità è sentita dal cliente a prescindere dalle parole, attraverso la decodifica (inconsapevole ma affidabile) di sottili informazioni che arrivano attraverso la postura, la mimica, il tono di voce ed altri segnali presenti nell’incontro.

 Rogers nei suoi scritti riporta alcuni “casi clinici” provenienti dalla sua attività terapeutica. E’ ragionevole utilizzare anche quei “casi” contenuti nella letteratura, che possono dare sostegno alle tesi di Rogers?

A. Manzoni e V. Hugo sono due Autori che ci raccontano una trasformazione “miracolosa” di due persone che avviene nell’incontro con persone luminose e piene di amore per il prossimo. C’è anche il racconto della crisi: Manzoni ci racconta la notte dell’Innominato, che arriva all’orlo del suicidio. Hugo ci dice di Jean Valjean che riuscì a “guardare la sua vita e gli parve orribile”.

Poi arriva il pentimento ed il pianto: “Per quante ore pianse così! Che cosa fece dopo avere pianto? Dove andò? Nessuno lo seppe mai; pare soltanto confermato che in quella medesima notte un vetturale…verso le tre del mattino vedesse attraverso la via de Vescovado un individuo in atteggiamento di preghiera, inginocchiato sul lastrico, nel buio, dinanzi alla porta di Monsignor Bienvenu.”(5)(6)

Ma anche Pirandello ha qualcosa da dire: “Pupi siamo, caro don Fifì!… Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentare fuori. A quattr’occhi non è contento nessuno della sua parte: ognuno ponendosi davanti al proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato.”

Rogers riconosce che ognuno di noi è stato costretto a confezionare un pupo, obbedendo alle richieste sociali, ma è determinato, con tutte le sue forze, a non esprimere alcun disprezzo, alcun giudizio. Anzi aspetta con tutto il calore e la simpatia di cui è capace che questa crosta si sciolga; perché è convinto che sotto il guscio (“il pupo”) si possa trovare l’uomo liberato, capace di vivere e di amare gli altri e il mondo e finalmente vivo e gioioso come Liolà. (7)

Dopo queste incursioni in campo letterario, ritorniamo sul terreno della Psichiatria e proviamo a rintracciare altre posizioni affini a quella di Rogers.

Malgrado la distanza (esplicitamente dichiarata) tra la Psicoanalisi e la Terapia centrata sul cliente, è possibile ritrovare, nel variegato mondo psicoanalitico, spunti che ricordano le intuizioni di Rogers. Mi sembra infatti che si possa intravedere una singolare vicinanza con la tesi di Franz Alexander, che dava un valore prioritario nel trattamento terapeutico alla “esperienza emozionale correttiva”, indicando un processo simile a quello che può avvenire nella terapia centrata sul cliente.

                                                                                                                          

C’è una convinzione che, a mio parere, occupa una posizione essenziale nel pensiero di Rogers:

si tratta di una grande fiducia nel nostro organismo. In più punti dei suoi scritti (8) ribadisce tale convinzione e, tra l’altro, ricorda una sua esperienza: “Era una ripresa al microscopio in cui dei globuli bianchi si muovevano a caso nella corrente sanguigna; ad un certo punto comparve un batterio di una malattia ed essi hanno cominciato a muoversi contro il batterio in una maniera che potrebbe essere definita “intenzionale”. Lo circondavano e gradatamente lo inghiottivano e lo distruggevano, per tornare poi a muoversi a caso…”

Analogamente mi sembra che succeda un processo simile in un gruppo di incontro…intendo dire che ad ogni livello, dalla cellula al gruppo, ho visto espressa “la saggezza dell’organismo.”

Perciò, secondo il suo modo di vedere, “l’individuo disturbato o nevrotico…è un individuo il cui concetto di sé si era strutturato in modo non coerente con l’esperienza organismica.”

Si tratta di affermazioni che segnano una grande distanza rispetto alla cultura del suo tempo

(dominata in quel periodo dall’idea dell’uomo macchina del comportamentismo o dell’uomo ancora primitivo nel suo inconscio della teoria freudiana.) Forse per questo la prospettiva rogersiana veniva chiamata “la terza via” in quel periodo storico.

Se ci riflettiamo un momento, la grande fiducia nella saggezza del nostro organismo è la risposta da lui data alla domanda fondamentale: “Chi è l’uomo?” che porta immediatamente al nocciolo di ogni problema. (9)(10)

C’è almeno un altro aspetto nell’opera di Rogers che è utile ricordare: ha sempre manifestato un grande interesse per la ricerca, da lui stesso applicata al processo terapeutico. Ma ha cercato di individuarne anche i limiti.

Se ci chiediamo come il nostro organismo funziona con tanta saggezza possiamo trovare qualche risposta (certamente ancora provvisoria e parziale). La domanda alla quale né la biologia né la psicologia sono in grado di dare una risposta è perché l’evoluzione è arrivata a questo risultato.

In realtà oggi sappiamo che il sistema nervoso si è evoluto nel corso di milioni di anni diventando   “unitrino”, cioè con tre componenti integrate tra loro (cervello rettiliano,  mammifero, umano.)

Ma nulla ancora ci sa dire, in modo scientificamente convincente, perché l’evoluzione ha preso proprio quella direzione. Per fare qualche esempio, oggi siamo a conoscenza che si è verificata una trasformazione della vasotocina (presente nei rettili) in ossitocina, un ormone così essenziale per la maternità. (11)

 A tale trasformazione possiamo dare un nome: “ exattamento”, che però si limita ad indicare un fenomeno, non certo a spiegarlo.

Tanti altri aspetti dell’opera di Rogers meriterebbero di essere ricordati.

Ci limitiamo ad accennare al suo retroterra filosofico, esplicitamente dichiarato, che attinge all’area fenomenologica-esistenziale. Da ricordare anche l’idea del funzionamento mentale come un flusso dinamico, di cui è possibile descrivere il percorso che si realizza nei gruppi di incontro.

                                                                                                                                                 

Rogers è molto esplicito nell’indicare quali modi di agire vanno rispettati nel trattamento psicoterapeutico.                                                                                                                              

Si dichiara del tutto contrario all’uso dell’interpretazione (così essenziale nel trattamento psicoanalitico) perché collocherebbe il terapeuta su un piano di superiorità rispetto al cliente, quindi con più potere e conoscenza.  E’ anche convinto che lo stile e la modalità relazionale descritta nella terapia possano risultare efficaci anche in altri ambiti, ad esempio nelle istituzioni scolastiche o in altre organizzazioni sociali.

Quello che a mio giudizio rimane un apporto prezioso è l’onestà ed il coraggio che hanno improntato il suo lavoro e la sua vita. Ha avuto il coraggio di porre domande fondamentali sull’uomo e sulla crescita potenziale della sua personalità. A prescindere dalle risposte che è riuscito a dare (a mio parere interessanti) ritengo che dobbiamo essergli grati per il coraggio e l’onestà con cui ci ha proposto interrogativi così essenziali.

NOTE                                                                                                                         

(1)Per fare un esempio, il contributo di Pierre Janet è stato ignorato per oltre un secolo. Le sue idee sono rimaste sepolte, riemergendo solo adesso grazie agli studi di psicotraumatologia. Riprendono le sue idee G. Liotti e B. Farina nel volume “Sviluppi traumatici” edito da R.Cortina nel 2011.

(2) Nel manuale di Psichiatria di S. Arieti scritto negli anni sessanta del Novecento vi è dedicato un intero capitolo (n°84) scritto proprio da Rogers. Nel voluminoso trattato di Psichiatria coordinato da Pancheri e Cassano (Masson 1999) non se ne fa alcun cenno.

(3) E’ la tesi sostenuta dal Dalai Lama nei suoi libri, per esempio nel libro “ La felicità al di là della religione. Edizione Sperling e Kuffen 2012”.

(4) Vedi il volume di Stephen W.Porges e Deb Dana “Le applicazioni cliniche della teoria polivagale”- Giovanni Fiorini Editore 2020

(5) Non è mia intenzione ridurre la ricchezza artistica delle due descrizioni ad un fenomeno di  

cambiamento “traumatico” della personalità dei protagonisti dei loro racconti. Né può essere la

dimostrazione della validità di una tesi, come è già avvenuto con l’Edipo Re. Ma sarebbe anche arbitrario negare valore alle intuizioni di due eminenti artisti.

(6) L’intuizione è una modalità di conoscenza misteriosa. Sembra, ha testimoniato anche Einstein, che sia presente in modo decisivo anche nelle scoperte scientifiche più avanzate. Una descrizione di alcuni correlati cerebrali attivi durante questo fenomeno è contenuta nel libro di Goleman e Davison “La meditazione come cura”, Rizzoli 2017.

(7) Pirandello: “Il berretto a sonagli”. Opere, Mondadori.

(8) In questa rilettura si fa riferimento essenzialmente ai libri “La terapia centrata sul cliente” e ad un altro classico di Rogers dal titolo “ I gruppi di incontro.”

(9) Erich Fromm: “L’arte di ascoltare”, Oscar Mondadori.

(10) La domanda “Chi è l’uomo?” interroga ovviamente anche la Psichiatria. Questa disciplina potrà trovare una qualche risposta al di fuori del proprio ambito, in una varietà di tesi non sempre compatibili tra loro. Per esemplificare riportiamo due posizioni molto diverse fra loro. La prima è quella di Vito Mancuso il quale si chiede: “Dove cercare? La mia risposta è: “il nostro corpo”. Non dobbiamo andare lontano, la risposta è vicinissima, è dentro di noi, è scritta nella nostra carne, proviene dalla logica che ci ha portato all’esistenza e ci mantiene in essa e che ci viene proposta in ogni istante, basta saper ascoltare: è la logica dell’aggregazione, del sistema, dell’armonia relazionale. (Vito Mancuso: “A proposito del senso della vita”. Garzanti 2021)

E. Morin ci propone un punto di vista affatto diverso: “L’uomo è sapiens-demens, capace di una raffinata capacità di razionalità e scientificità, ma anche di pensieri primitivi o addirittura fancamente paranoici, di grandi conquiste (per es. l’abolizione della schiavitù ) e di vergognosi arretramenti; ed è ancora incapace di guardare alla complessità rifugiandosi in separazioni arbitrarie e semplificanti e quindi in conoscenze parziali ed inadeguate.” ( E. Morin: “Svegliamoci” Mimesis 2022.) 

Il) libro di Panksepp: “Archeologia della mente”: Cortina, contiene informazioni originali ed aggiornate sulla biologia della vita affettiva.

“Svegliamoci”

Considerazioni di Mario Mulè sullo scritto di Edgard Morin.

E’ ancora utile, dopo altri autorevoli commenti all’opuscolo di Edgard Morin “ Svegliamoci”, proporre ulteriori considerazioni?

Un dialogo su questioni tanto importanti ritengo sia comunque utile, perciò mi sono autorizzato a scrivere e a diffondere qualche altro pensiero.

Comincio con una mia sensazione: mi è sembrato che l’Autore, in questa breve opera, abbia voluto assumere una funzione ed una responsabilità profetica  .(1)

Ma chi erano i profeti del mondo vetero testamentario?

Essi non “ predicevano”, ma “ dicevano”. I loro ammonimenti andavano oltre gli aspetti religiosi o morali, proponendosi piuttosto come “ realpolitici”.

Si proponevano la liberazione del popolo ebraico dalle illusioni, indicando una alternativa da scegliere, tra una società pienamente umanizzata ed una barbarie.(2)

Anche Morin, con il suo invito a svegliarci, ci indica che l’umanità si trova oggi davanti ad un bivio: possiamo proseguire continuando un percorso umanistico  ( attualmente in regressione ) oppure correre inconsapevoli verso un possibile abisso.

L’invito ad aprire gli occhi per riconoscere la realtà e svegliarci certo non è nuovo.

Einstein aveva già segnalato che viviamo dentro una sorta di “ illusione ottica della coscienza. E’ una specie di prigione, che ci limita nei confini dei nostri desideri personali e dell’affetto per le poche persone a noi più vicine. Il nostro compito dovrebbe essere liberarci da questa prigione…”

Possiamo richiamare tanti altri pensieri simili: “ E’ un fatto che, mentre crede di essere sveglia, la maggior parte di noi è come assopita…Ciò che intendo dire può essere simboleggiato dal nome di Buddha, che significa colui che si è ridestato, l’essere umano davvero cosciente di sé”.

Chi ha detto queste parole non è un devoto buddista ma ( ancora ) Fromm.(3)

Dunque l’invito è a svegliarci, a liberarci per guardare a noi stessi e al mondo o addirittura all’Universo di cui facciamo parte: è questo l’invito perentorio che ci arriva da Morin e da tanti altri “ saggi”.

Come dobbiamo intendere questi ammonimenti? Certo non è un invito a fare sempre più cose, ad inseguire sempre nuovi desideri ( indotti) da soddisfare, ad acquistare e consumare.

“ La tecnica ( secondo Morin ) ha imposto, in settori sempre più estesi della vita umana, la logica della macchina artificiale, che è meccanica, determinista, specializzata, cronometrata. ( lavora, mangia, dormi.)

Detto in altre parole, essere indaffarati non è una soluzione, lo siamo già fin troppo.

Da più parti ci arriva l’invito a conoscere ed a prenderci cura della nostra mente.

“ La mente è come un oceano. Nel profondo, sotto la superficie, esso è calmo e limpido. Non importa se in superficie ci sia una tempesta, in profondità l’oceano è   tranquillo e sereno. Dalla profondità della tua mente, puoi osservare tutta la tua attività mentale (pensieri, sentimenti, sensazioni, ricordi) senza legarti ad essi, imparando a lasciarli andare”. (4 )

La metafora di Siegel è molto rassicurante. Come scienziato e clinico che utilizza la Neurobiologia interpersonale egli ritiene che la neuroplasticità ci consenta di plasmare il nostro cervello; ritiene anche che possiamo dirigere la nostra mente, sviluppando attitudini molto preziose ( come altruismo, cooperazione, compassione) potenzialmente presenti nella natura umana.

Sulla stessa linea di pensiero si collocano altri autori, ad esempio Gilbert, Stephen W. Porges con la sua innovativa teoria polivagale. (5)

Ma non tutti coloro che si occupano della mente umana ( siano essi clinici o neuroscienziati) condividono questa linea.

Intanto i cambiamenti resi possibili dalla neuroplasticità richiedono grande autodisciplina ed anni di pratica.

Altri inoltre segnalano che “ la vita interpersonale dell’uomo deriva da articolazioni, combinazioni e sviluppi di questi sistemi ( interpersonali) già universalmente presenti nei primati, e continua a poggiare su di essi dalla culla alla tomba.” (6)

Quanto sono distanti o conciliabili queste due posizioni? Per Morin questa, semplicemente, è la realtà. L’uomo è sapiens-demens. Né può fare a meno della sua parte demens ( che è anche poetica) perché altrimenti la vita sarebbe arida. (7)

Dobbiamo però essere attenti e capaci di dominare ( o almeno attenuare ) quelle componenti che altrimenti ci dirigono, come sta avvenendo oggi per l’istanza prometeica “ una dismisura insensata si è impossessata dei possidenti”.(E. Morin)

Non so se l’umanità sarà capace di un pensiero complesso, che colga le

interconnessioni e gli aspetti paradossali presenti nella vita; se sarà capace di evitare che l’antropocene evolva verso thanatocene.

Ciò che oggi non possiamo negare è che la nostra casa, il nostro pianeta, sta bruciando. Che non c’è tempo da perdere, che è insensato restare indifferenti mentre la casa brucia. Tutto il resto viene dopo.

Forse ciò che può servire è una grande alleanza, una cooperazione ove lavorino insieme scienza e religione, movimenti e forze politiche, istanze etiche e pensiero razionale.

Se non ora, quando?

 

NOTE

 

(1) Lo stesso autore, nella sezione “ Ringraziamenti” posta alla fine del saggio, definisce quest’opera “un appello per un risveglio delle coscienze”.

(2 )Sono riflessioni di cui siamo debitori ad E. Fromm, tratte dal suo scritto “ Attualità degli scritti profetici”.

(3) E. Fromm: “L’arte di ascoltare” pag.162

(4) D.Siegel: “ Mindsight” pag.104- R. Cortina

(5) P.Gilbert: “La terapia focalizzata sulla compassione-Franco Angeli

Stephen W.Porges: “ Le applicazioni cliniche della teoria polivagale- Giovanni Fioriti Editore

(6) Nella prospettiva evoluzionista i sistemi motivazionali ( da intendere come tendenze molto potenti e spesso ineludibili ma diverse dagli istinti) sono disposizioni innate ed universali già presenti nelle  specie animali evoluzionisticamente più vicini a Homo sapiens, selezionate dalla evoluzione.

Vedi G. Liotti: “ I sistemi motivazionali nel dialogo clinico- R.Cortina Editore

Su una linea simile si colloca l’importante opera di Panksepp, che ha fondato e sviluppato la neuroscienza affettiva. Vedi “ Archeologia della Mente”- R.Cortina

(7) E. Morin:” Amore, poesia, saggezza”- Armando Editore

Le neuroscienze affettive come stimolo efficace per una crisi evolutiva della psichiatria

Autore: Mario Mulè


Lungo i percorsi del pensiero scientifico ogni tanto può succedere che nuove scoperte non possano essere assimilate all’interno dei paradigmi già esistenti.
Diventa quindi necessaria la messa in crisi delle teorie precedenti e la ricerca di nuove formulazioni teoriche.
Vi sono buone ragioni per ipotizzare, nell’ambito della psichiatria, una crisi provocata dalle conoscenze che ci arrivano dalle neuroscienze affettive ed in particolare dagli studi effettuati da J. Panksepp. Infatti la dimostrazione con metodi scientifici replicabili della presenza in tutti i mammiferi di sistemi affettivi primari ( i cosiddetti “motori primi”, di cui è stato possibile trovare localizzazioni, circuiti neuronali e meccanismi biochimici nelle parti più arcaiche del cervello) non si limita ad aggiungere nuove conoscenze.
Viene dimostrato, in maniera abbastanza convincente, che questi sistemi affettivi ( ricerca, paura, collera, desiderio sessuale, cura, panico/sofferenza ) condizionano in modo rilevante sia i processi di apprendimento, sia le operazioni mentali di ordine superiore presenti nell’uomo.
Le ricadute possono riguardare: a) la nosografia psichiatrica, b) l’interpretazione della psicopatologia, c)la psicoterapia, d)la psicofarmacologia, e) la pedagogia, f)più in generale la visione della mente umana.


A) L’attuale nosografia psichiatrica si basa su intuizioni che abbiamo ereditato da “ pionieri” come Bleuler, Freud, Kraepelin. Questi autori potevano contare sulle loro osservazioni del comportamento e sui resoconti forniti dai racconti dei pazienti.
Non potevano quindi costruire le loro teorie usufruendo delle conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso che si sono sviluppate successivamente.
Forse è utile ricordare che Freud, dopo un tentativo di capire i fenomeni mentali basandosi sulle conoscenze disponibili alla fine dell’800, ha dovuto desistere, dichiarando esplicitamente che il suo “Progetto per una Psicologia” era folle, e che doveva essere imboccata un’altra strada.
Peraltro, il sistema diagnostico attualmente dominante è apparso a molti studiosi discutibile per vari motivi, uno dei quali è la moltiplicazione inverosimile delle sindromi psichiatriche nei passaggi dal DSM I al DSM V.
E cominciano ad apparire proposte di sistemi diagnostici alternativi che inquadrano i disturbi mentali a partire proprio dai sistemi emotivi primari basandosi quindi su metodi sperimentali.


B ) I disturbi psicopatologici possono essere interpretati (almeno in parte) come alterazioni di ordine quantitativo di alcuni sistemi emotivi di base e sulle influenze degli stessi sui processi mentali successivi di apprendimento e di pensiero simbolico ed astratto.
Ad esempio, una condizione psicotica può essere vista come una disfunzione del sistema della ricerca, mediato dalla dopamina.
Una eccessiva attivazione potrebbe essere implicata nella produzione di pensieri irrealistici e di collegamenti impropri, mentre la condizione depressiva potrebbe in parte derivare da una ipofunzionalità dello stesso sistema.
Così come una eccessiva attivazione del sistema della paura (per influenze costituzionali o per esperienze acquisite) potrebbe in parte contribuire a capire vari quadri clinici raggruppati come disturbi d’ansia.


C) Una visione del funzionamento mentale che pone in primo piano i sistemi affettivi primari non si pone in contrasto con la psicoterapia, anche se ne suggerisce alcune correzioni.
Se prendiamo in esame la psicoterapia psicoanalitica, possiamo constatare che Freud aveva riconosciuto i fondamenti biologici alla base della via mentale, ma ne aveva segnalato due soltanto (eros e tanatos).
Basandoci su quanto emerso dalle neuroscienze affettive, dobbiamo guardare ai fondamenti affettivi come più ricchi e diversificati, riconoscendo almeno sette sistemi primari (ma con la possibilità che se ne possano individuare ancora altri).

Un altro aspetto è relativo ai fattori terapeutici realmente efficaci: basandoci sui dati delle neuroscienze affettive dovremo ancora essere attenti alle sofisticate produzioni simboliche e cognitive degli esseri umani, ma considerando anche il potere influenzante che i “motori primi” continuano ad esercitare per tutta la vita e valorizzando quelli che possiamo considerare nel loro insieme prosociali.
Sono sempre più numerose le ricerche che collegano salute mentale e buone relazioni sociali: l’ultimo numero della rivista “Mind” ha scelto come titolo “ Il potere delle relazioni”, riportando vari studi che illustrano il ruolo fondamentale delle relazioni prosociali per il benessere psicofisico.


D) La psicofarmacologia potrebbe fare un salto qualitativo se riuscisse a modificare i meccanismi biochimici specifici dei vari sistemi affettivi fondamentali.
Sappiamo che gli psicofarmaci attualmente disponibili non sono specifici, con la conseguenza di numerosi effetti collaterali indesiderati (vedi le terapie con neurolettici) oppure con farmaci attivi su numerose sindromi, come avviene con gli antidepressivi serotoninergici, che non solo hanno effetti collaterali indesiderati, ma presentano periodi di latenza piuttosto lunghi, sollevando dubbi sul meccanismo di azione (riduzione della ricaptazione della serotonina). Alcuni indizi fanno pensare ad una azione riparativa, che può richiedere più tempo, ma che al momento è solo una ipotesi.
Vi sono stati tentativi di utilizzare molecole più specifiche: per esempio, la bupremorfina, agonista a piccole dosi e antagonista a dosi più elevate dei recettori degli oppioidi endogeni, potrebbe modificare velocemente una condizione depressiva (caratterizzata da un deficit degli oppioidi endogeni) sfruttando la conoscenza dei meccanismi biochimici coinvolti nella depressione.
Prospettive certamente interessanti, ma che richiedono conferme attraverso piani di ricerca (ad esempio, studi in doppio cieco, peraltro già in corso) prima di una autorizzazione ad un uso in ambito clinico.
Per inciso, vale la pena di ricordare che gli oppioidi interni vengono prodotti all’interno di specifici siti cerebrali attraverso le varie forme di cura, che vanno dalla toelettetura praticata su molti animali alle relazioni di cura attivate nelle relazioni umane; è evidente che questi dati ripropongono l’importanza delle relazioni prosociali nell’ambito psicoterapeutico e nella vita di ognuno di noi.


E) Nell’ambito educativo è decisiva l’osservazione che le nostre emozioni positive possono essere coltivate e rafforzate da esperienze affettive prosociali.
Questa convinzione non è certo una novità, dal momento che già tradizioni spirituali di varia provenienza hanno considerato che emozioni prosociali (come la compassione universale o l’amore per il prossimo) sono alla base della salute mentale.
Purtroppo ancora non si vede riconosciuta abbastanza l’importanza di tali esperienze nelle funzioni genitoriali e in ambito scolastico, anche se cominciano a realizzarsi esperienze pilota nei contesti educativi e nella pratica terapeutica (Gilbert ).
A tutti noi viene presentata una proposta che vede l’uomo non soltanto portatore di funzioni superiori (homo sapiens sapiens) ma come un essere che appartiene anch’esso alla natura, essendo frutto di un lungo percorso evolutivo.
Oltre alle funzioni cognitive e simboliche (processi terziari) bisogna considerare anche i processi primari (affettivi) e secondari (di condizionamento e di apprendimento) tra loro intrecciati ed interagenti.


F) Cosa si può dire delle ricadute acquisite con le neuroscienze affettive sulla pratica clinica?
Posso solo riferire qualcosa della mia esperienza di psichiatra e di psicoterapeuta.
Forse ci permette una visione decolpevolizzante e depsichiatrizzante dei disturbi mentali.
Ma non certo deresponsabilizzante, perché la consapevolezza di una quota irrazionale in ognuno di noi ci obbliga piuttosto ad impegnarci per diventare soggetti (per quanto possibile) del nostro funzionamento mentale.
In questo ci possono aiutare alcune pratiche provenienti dal mondo orientale (mindfulness) senza sottovalutare quelle di casa nostra, più orientate all’azione (ruminare, riprendere, trasformare come avviene con i tre stomaci della mucca).
Tutte funzioni molto utili anche in ambito terapeutico, anche se spesso non risolutive.


Infine proverei a confrontare quanto è stato proposto con il pensiero filosofico e con l’epistemologia contemporanea.
Viste le mie scarse conoscenze in questo ambito (e consapevole di poter essere corretto o smentito) mi limito al confronto con quanto proposto da E. Morin.
Morin definisce l’uomo sapiens-demens. L’aspetto demens non ha una connotazione negativa, vuole solo indicare la presenza di una dimensione irrazionale, di cui gli aspetti emotivi, provenienti dalla evoluzione, sono una parte rilevante.
Ci avverte anche che la parte irrazionale, oltre a costituire una realtà innegabile, è anche fonte di vitalità e di gioia.
La sua proposta è quindi di esercitare autocritica e consapevolezza al fine di aumentare la quota di saggezza, senza tuttavia negare o disprezzare quella irrazionale.
Una visione lontana dal rinnegare le componenti emotive e che invece valorizzi, pur da una angolazione diversa, la complessità della natura umana e la necessità di uno sguardo capace di coglierla.



Biblografia

1) J.Panksepp-L.Biven: “ Archeologia della mente “ R. Cortina Editore
2) J.Panksepp-L.Davis: “I fondamenti emotivi della personalità” R.Cortina Editore
3) Manuel Cappello: “Le emozioni di base secondo Panksepp-Introduzione e connessioni filosofiche.
4) E.Morin: “ Amore, Poesia,Saggezza” Armando Editore
5) P.Gilbert: “ La terapia focalizzata sulla compassione” Franco Angeli Editore
6) D.Goleman: “La forza del bene” cap. 10 Rizzoli Editore
7) Frans de Waal: “Il bonomo e l’ateo- In cerca di umanità fra i primati” R.Cortina Editore
8) Frans de Waal: “L’ultimo abbraccio- Cosa dicono di noi le emozioni degli animali Cortina Editore

Attenzione! Sta arrivando Charles Robert Darwin

Autore: Mario Mulè

Cari colleghi “ Psi”, care amiche, cari amici,

ho scritto questi appunti spinto dal desiderio di scambiare quattro chiacchiere, senza altre pretese.

Se qualcuno vorrà chiacchierare, gliene sarò grato. Altrimenti pazienza, cercherò di riflettere da solo, anche se questa modalità mi risulta più difficile e meno piacevole.

Serve un titolo? Può andare bene il seguente:

Attenzione! Sta arrivando Charles Robert Darwin

Per una breve sintesi:

Nuove conoscenze provenienti dalle neuroscienze affettive, dalla psicologia comparata e da altre fonti hanno dato nuova enfasi ai fattori biologici alla base del comportamento umano e ad una visione evoluzionista. Tali conoscenze costringono a riconsiderare il reciproco rapporto fra natura e cultura. Inoltre promettono di fornire alla psichiatria ed alla psicologia prospettive nuove e di rendere più comprensibili le difficoltà che spesso si incontrano in psicoterapia quando questa si propone di avviare cambiamenti non soltanto sintomatici.

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Alle soglie del Novecento Sigmund Freud propose un “Progetto per una Psicologia”, fondato sullo studio del cervello.

Egli stesso in seguito prese un’altra strada e definì il progetto improponibile e folle; e forse a quel tempo lo era davvero.

Dopo oltre un secolo l’onda lunga della biologia sta arrivando sulle sponde della psichiatria e della psicologia e le costruzioni ed i paesaggi mentali da loro costruiti in questo secolo stanno subendo profondi cambiamenti.

La biologia sta avanzando irresistibilmente, sospinta dall’evoluzionismo e dalle nuove conoscenze consentite dal progredire delle tecniche.

Risonanza magnetica funzionale, PET, stimolazione profonda del cervello, sonde farmacologiche ed altre tecniche molto sofisticate stanno fornendo strumenti per un balzo in avanti prodigioso.

Ci viene consegnato, anno dopo anno, un patrimonio di conoscenze che non possiamo ignorare, sia che si faccia ricerca, sia che si lavori artigianalmente nella propria stanza di terapia.

Prendiamo, ad esempio, quanto ci dicono le neuroscienze affettive.

Panksepp ed altri hanno documentato in maniera molto convincente l’esistenza di “motori primi”, cioè di strutture collocate in parti antiche del nostro cervello, che sono le fondamenta delle nostre funzioni affettive e delle nostre emozioni.

Hanno avuto questo nome in quanto attivatori di comportamenti e apprendimenti. Si tratta di strutture e di funzioni molto potenti, essendo una eredità evolutiva che ha funzionato per milioni di anni, rendendo grandi servigi alle specie che le possedevano.

Tutti i mammiferi ne sono dotati, uomo compreso.

Il fatto che Homo sapiens possegga ulteriori capacità (razionalità, linguaggio, immaginazione, etc) non comporta la loro disattivazione, anzi la loro influenza si fa sentire anche quando queste funzioni superiori vengono messe in atto.

A parere di questi studiosi è già possibile inquadrare le varie personalità e le relative disfunzioni proprio a partire dalla conoscenza dei “ motori primi”, e di fatto esistono le relative scale di valutazione per una loro applicazione clinica. Lo stesso DSM5 ha preso in considerazione questo modello, anche se ancora non lo ha adottato.

Anche molte sindromi psichiatriche verrebbero spiegate ( e forse, in futuro, curate) a partire da queste conoscenze.

Panksepp ha descritto i principali motori primi, rintracciando le strutture cerebrali coinvolte ed i relativi sistemi biochimici:

Ricerca, Rabbia, Paura, Gioco, Cura, forse anche Sessualità sarebbero già localizzabili in specifiche aree cerebrali, assieme ai neurotrasmettitori attivi in quelle aree.

Anche Paul Gilbert si muove in questo scenario e propone un sistema semplificato, composto da tre componenti (sistema di allarme e di protezione dalla minaccia, sistema di ricerca di stimoli e risorse, sistema calmante di appagamento e sicurezza ) che interagiscono tra loro.

La proposta di Giovanni Liotti prende in considerazione cinque Sistemi motivazionali interpersonali ( attaccamento, accudimento, agonismo, sistema sessuale, cooperazione paritetica). Anche per Liotti i sistemi motivazionali interpersonali, eredità filogenetica e patrimonio di tutti i primati, sono a fondamento della vita interpersonale: “tutta la vita interpersonale dell’uomo deriva da articolazioni e sviluppi di questi sistemi…e continua a poggiare su di essi dalla culla alla tomba…”

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L’esistenza di un fondamento biologico alla base del comportamento e delle funzioni mentali umane non è una novità. Basti qui ricordare la posizione di Freud e il suo concetto di Es ( nelle sue componenti di Eros e Tanatos )come una delle tre componenti costitutive dell’apparato psichico ( assieme ad Io e Super Io ).

Ma anche un autore come E. Fromm, che pure ha valorizzato il ruolo dei fattori culturali e sociali, non ha mai negato la componente costituzionale. Emblematica è la sua affermazione, apparentemente paradossale:                          “ natura al 100%, cultura al 100%” .

Non credo sia corretto enfatizzare troppo l’importanza dell’aspetto biologico, perché non vi è dubbio che l’uomo sia fortemente condizionato dai sistemi culturali in cui nasce e vive.

D’altra parte a mio parere è piuttosto estremista e non condivisibile l’affermazione di alcune scuole di psicologia le quali sostengono che “la natura dell’uomo è la sua cultura”.

Le forze in gioco sono tante, né si può sottovalutare l’influenza sull’umanità del sistema economico. Forse hanno visto bene coloro che hanno riconosciuto un particolare “ fenotipo” umano, frutto dell’attuale sistema consumistico-capitalistico, che hanno chiamato “homo consumens”.

Altri ancora ci segnalano le idee e l’immaginazione umana come i veri propulsori della storia e portano come esempio la nascita dal 15°secolo in poi del concetto di un “oltre”, di mondi e saperi ancora sconosciuti e da esplorare.

Da qui avrebbero avuto avuto inizio le grandi scoperte geografiche                   (anche se i finanziamenti che le rendevano realizzabili provenivano da società finanziarie e da banche del capitalismo nascente).

Dobbiamo accettare dunque che le varie scienze dell’uomo (biologia, economia, psicologia, antropologia, paleontologia, etc) procedano ancora separate, non essendo ancora disponibile un modello capace di tenere insieme le tante variabili in gioco?

Anche accettando la parzialità di un approccio biologico e più specificamente evolutivo, non credo sia corretto considerarlo accessorio o marginale.

Dopotutto, dietro le scrivanie delle banche oppure come timonieri di navi (oggi di navicelle spaziali) vi sono sempre donne e uomini in carne ed ossa, con le loro emozioni.

Possiamo dunque attribuire legittimità ed importanza ad un approccio biologico-evoluzionista, ma dobbiamo riconoscere subito che sorgono e si impongono alcune domande che cercheremo di illustrare.

  1. Non possiamo certo pensare che i contributi neuroscientifici abbiano già fornito una conoscenza esaustiva del cervello. E’ ancora un mistero come si origina la coscienza, tanto meno abbiamo idea di come fanno impulsi chimici ed elettrici a trasformarsi in sentimenti, pensiero, fantasia.

Se quindi le nostre conoscenze sulla macchina della mente sono così parziali, che possibilità abbiamo per una farmacoterapia che poggi su basi sicure?

Potrebbe avere buone ragioni chi ha sostenuto (R.Whitaker) che “ i cambiamenti indotti dai farmaci nella chimica della mente possono provocare processi antagonisti che gradualmente destabilizzano siffatta chimica al punto di non potere raggiungere un senso di normalità”?

Un esempio di questa tragica eventualità è sotto gli occhi di ogni psichiatra ed è la discinesia tardiva, indotta dai neurolettici e sostanzialmente incurabile ed invalidante.

  • Una regola fondamentale dell’evoluzione è che non viene mai abbandonato quanto acquisito e che migliora il funzionamento e la sopravvivenza della specie. Ad esempio, dopo che è stato “inventato” l’apparato circolatorio, ha continuato ad essere presente in tutti gli organismi delle specie successive.

C’è qualche valido motivo per pensare che questo non debba valere per i “motori primi”, che hanno consentito l’affermazione dei mammiferi per milioni di anni?

Il nostro cervello unitrino ne è testimone, visto che non ha abbandonato le strutture e le funzioni che si erano sviluppate prima dell’ homo sapiens.

Come abbiamo visto prima, ormai sono in tanti che ne riconoscono il ruolo fondamentale nel nostro funzionamento mentale orientandolo e forse (a volte) determinando la sua direzione.

  • Sappiamo che oggi esistono centinaia di modelli di cura in ambito psicoterapeutico.

L’ipotesi di pervenire ad una “psicoterapia senza aggettivi” fino ad oggi è rimasta solo un desiderio.

Molte delle terapie attuali si basano sulla modifica di funzioni corticali puntando sulla metacognizione o sul riconoscimento e la correzione di errori cognitivi.

Anche nelle principali correnti psicoterapeutiche in realtà si vedono integrazioni ed aggiornamenti che tengono conto (in parte) di acquisizioni provenienti dalle neuroscienze o da ricerche relative alla dimensione emotiva: molti psicanalisti, ad esempio, hanno cooptato i risultati delle ricerche sull’attaccamento. Liotti, di scuola cognitiva, arricchisce il suo approccio con concetti di derivazione evoluzionista, tanto da definire la propria impostazione cognitivo-evoluzionista. In particolare ha molto valorizzato il sistema interpersonale cooperativo paritetico come necessario per una efficace pratica terapeutica.

Modelli che prendano avvio dalla conoscenza dei fondamenti emotivi e dalle neuroscienze non sono ancora numerosi.

Siegel propone l’esercizio della “ruota della consapevolezza” mentre Gilbert utilizza pratiche immaginative ritenute capaci di attivare sistemi (come, ad esempio, quello calmante) di cui si conosce la base anatomica e neurochimica.

Facciamo un esempio: un paziente con disturbi d’ansia potrebbe immaginare un posto sicuro, ripetendo molte volte questa pratica, in modo da modificare un funzionamento che vede troppo attivo il sistema di allarme. Oppure il paziente potrebbe incarnare (come fosse un attore che entra nella parte con tutto se stesso) un personaggio compassionevole, per modificare modalità di funzionamento autocritico guidate dalla vergogna e sviluppando un rapporto con se stesso e con il mondo all’insegna della compassione.

E’ difficile dare un giudizio su queste nuove pratiche: quando si tratta di modificare strutture innate e modalità di comportamento e di pensiero affermatisi nel corso di tanti anni modellati dall’esperienza o di deviazioni indotte da eventi traumatici, le pratiche immaginative sono efficaci e sufficienti?

  • Se allarghiamo un po’ il campo di osservazione possiamo vedere che cambiamenti più o meno straordinari o miracolosi vengono descritti in opere letterarie o nelle tradizioni religiose.

Quelli che qui ci interessano maggiormente sono i cambiamenti della personalità, un vero rompicapo per ogni terapeuta.

Uno di questi esempi letterari ci viene fornito da Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”, quando descrive lo starec al cui convento si recano tante persone sofferenti che sperano nelle sue straordinarie qualità di guaritore.

Ad una lettura superficiale può sembrare che il suo intervento altro non sia che l’insegnamento del Vangelo cristiano e il rinsaldamento della fede. In realtà l’incontro con i fedeli sofferenti è reso straordinario dalle qualità dello starec.

Quando egli accoglie la madre disperata ed inconsolabile per la morte del bambino (una depressa?) sta riversando su di lei una pietà immensa, un amore compassionevole che avvolge tutta la persona, mentre le posa la mano sul capo e le dà la sua benedizione.

Ma anche l’Innominato manzoniano o il ladro Jan Vajian di Victo Hugo fanno una simile esperienza, che cambia per sempre la loro personalità.

Dello stesso genere è l’esperienza che ci racconta lo scienziato Paul Ekman. Quando ha incontrato il Dalai Lama: “In quei 5-10 minuti mi sentii inspiegabilmente avvolto da un calore fisico, un calore meraviglioso in tutto il corpo ed in faccia.”

Ekman sostiene che quell’incontro ha cambiato la sua vita, rivoluzionando le sue modalità relazionali e rindirizzando anche la sua ricerca in ambito psicologico.  

Molto interessanti sono anche i racconti che possiamo recuperare dalle tradizioni religiose. Qui viene ribadito che un cambiamento richiede scelte radicali, perché non possono esistere mezze misure.

“ Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, dice Gesù di Nazaret all’uomo che voleva seguirlo, ma chiedeva di poter prima andare a seppellire il padre defunto.

Una pretesa, quella di Gesù, che può apparire eccessiva, ma che indica chiaramente la necessità di una scelta veramente radicale.

E non era così anche per chi voleva seguire Budda? E per gli Stoici? E per gli Epicurei? Ma può chiedere tanto un terapeuta ad un suo paziente?

E tanto anche a se stesso?

Questi esempi letterari e questi racconti tratti dalle tradizioni religiose potrebbero indicare che i cambiamenti nell’uomo avvengono solamente in condizioni straordinarie?

                                     ——————————–

Circa 80.000 anni fa un singolo cambiamento nel funzionamento cerebrale ha dato all’uomo nuove capacità: la capacità di una intenzionalità congiunta (visibile già in un bambino di nove mesi) e di una intenzionalità collettiva (al 3° anno di vita) avrebbero dato inizio alla cultura umana, con ricadute enormi sulla specie Homo sapiens.

In un lasso di tempo che nella scala evolutiva è solo un battito di ciglia, Homo sapiens (sapiens?) è diventato il signore dell’intero pianeta (ed il terrore dell’ecosistema).

E già pensa di scavalcare ed andare oltre le regole della natura (e della evoluzione) diventando lui stesso creatore di una nuova natura nata dalla sua intelligenza.

Nel 2020 è arrivata la pandemia, un vero e proprio attacco frontale all’onnipotenza ed all’idea di un progresso ed una crescita senza limiti del benessere umano.

Stiamo assistendo a fenomeni che in psichiatria vengono considerati psicotici (negazione, pensieri paranoici di complotto, pensieri magici, etc).

Come guardare dunque all’uomo? E’ un essere che si è evoluto fino a diventare un dio, ricco di tecnica, di pensiero, capace di guardare la verità dentro di sé e nel mondo?

Oppure funziona ancora determinato dai “motori primi” (oltre che da altri condizionamenti socio-culturali )?

Oppure è entrambe le cose insieme?

La mia convinzione è che dentro di noi c’è l’uno e l’altro.

Sono arrivato a questo convincimento aiutato dalle scoperte e dalle riflessioni di tanti studiosi che hanno cercato di capire l’uomo, e poi ci hanno trasmesso quanto avevano capito (ecco l’importanza del linguaggio e della cultura!).

Ed il materiale su cui studiare certo non manca: è abbondante non solo perché viene portato ogni giorno nella stanza di terapia; in realtà è sempre davanti a noi. Ed anche dentro di noi, visto che arriva quasi ogni notte con i nostri sogni.

Pochi praticano l’autoanalisi, ma chi lo ha fatto ha dichiarato che considerava questa pratica “meditativa” l’attività più importante della giornata.

A me pare che noi possediamo sia l’eredità evolutiva, sia altre capacità esclusivamente umane.

L’eredità evolutiva tuttavia non va demonizzata: intanto è una realtà e non serve a niente negarla.

Ma poi perché dovremmo guardare, per esempio, al sistema di cure o al sistema di rango come una imperfezione della natura umana? Cosa sarebbe l’umanità se non ci fosse il sistema di cura, così essenziale per la crescita e la sopravvivenza stessa del cucciolo dell’uomo?

Tutti i “motori primi” hanno avuto ed hanno ancora innegabili “ valori” e funzioni essenziali per la vita. Spesso però ci imprigionano, perché naturalmente dati come troppo potenti oppure perché resi tali dalle esperienze (soprattutto precoci) cui siamo andati incontro nella nostra storia di vita.

Abbiamo la possibilità di sceglier e di essere liberi? A volte si, altre volte questo non è possibile. Certo possiamo assumerci l’obbligo di un impegno, ma dobbiamo riconoscere, per noi e per gli altri, che non sempre l’impegno riesce efficace. Certo è però che l’uomo non ha sconfitto la sofferenza, e spesso viene a bussare alla nostra porta di psicoterapeuti e di psichiatri per essere risanato.

Che mezzi possediamo?

Abbiamo un po’ di farmaci (da usare con prudenza ); molti li richiedono perché congruenti con la nostra cultura “ tecnologica” in cui tutti viviamo.

Possiamo avere sviluppato un po’ di conoscenza e di sensibilità che ci consente di sintonizzarci con l’altro e dare un senso alla sua sofferenza.

Non dobbiamo però pretendere di essere potenti, perché le forze in gioco, siano esse naturali oppure sociali e culturali, possono essere molto potenti. Forse anche noi terapeuti abbiamo sviluppato troppa onnipotenza. Ci siamo dimenticati che curare è, in primo luogo, prendersi cura, condividere, non lasciare solo chi sta male.

Per concludere (anche se non c’è una conclusione) vorrei dedicare un pensiero (compassionevole) a chi rimane sconfitto, come accade spesso, ai pazienti più gravi (gli psicotici). Vorrei farlo in forma di poesia, arrivata un giorno chissà da dove…

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Anime malate

Nel frastuono del mondo

si sono perse, dissolte

quelle grida, quei pianti,

i singhiozzi, il furore.

Ma qualcuno racconta

di una casa, di un santo

che ridona salute

che dà vita e speranza.

Già qualcuno è partito

sogna abbracci, calore

Già qualcuno ritorna

con lo sguardo ormai spento

e trascina i suoi passi

con la morte nel cuore.

Letture di riferimento

  1. Jaak Panksepp e Kenneth L. Davis: “ I fondamenti emotivi della personalità”                                                          R. Cortina
  2. P.Gilbert: “La terapia focalizzata sulla compassione”  F.Angeli
  3. Frans de Waal: “ L’ultimo abbraccio”                 R. Cortina
  4. Hanna Wolf: “Gesù psicoterapeuta”                  Ed. Queriniana
  5. G.Liotti: “La dimensione interpersonale della coscienza”– Carocci
  6. M.Tomasello: “Divenire Umani”                                     R.Cortina
  7. Brian Hare e Vanessa Woods: “La sopravvivenza del più amichevole”

                                                                                     Le Scienze—Ottobre 2020

  • Y.N.Harari: “ Sapiens- Da animali a dei”                   Bompiani
  • Daniel J.Siegel: “Diventare consapevoli”                       R.Cortina

Chi volesse contribuire al dibattito sul tema, può scrivere all’indirizzo mail: mario.mule@alice.it

Le idee sull’uomo e la loro influenza sulla vita

Di Mario Mulè

Possiamo iniziare la riflessione sulla tematica proposta riportando un pensiero di  D. Siegel: “Nel 1992 organizzai presso la UCLA un gruppo di ricerca interdipartimentale per studiare le connessioni tra la mente ed il cervello”…( Presto però mi accorsi) “che non c’era una visione condivisa della mente e nessun vocabolario condiviso per discuterne”.

Alla fine il gruppo interdisciplinare arrivò a condividere una definizione che era “ un necessario punto di partenza dal quale iniziare la nostra esplorazione insieme”.

Ritengo che un problema simile siano chiamati ad affrontarlo quanti si propongano di agire per l’uomo e per la vita.

Per restare nel mio ambito disciplinare, ritengo che se arriva nella nostra stanza chiedendo un aiuto una persona depressa, sia più corretto considerare che abbiamo di fronte un uomo depresso, piuttosto che semplificare la situazione clinica trattando una entità (?) che è stata denominata depressione. Ma se vogliamo veramente incontrare un uomo, non è forse necessario avere un’idea di chi sia l’uomo?

Disponiamo forse di una definizione condivisa?

Una definizione di uomo non la troviamo certo nella letteratura psichiatrica.

Attualmente è quasi un obbligo nel lavoro clinico fare riferimento al DSM-5, un manuale che descrive in modo dettagliato i sintomi di ogni disturbo ed altri aspetti ritenuti utili ed oggettivabili senza porsi altre domande.

Non trovando alcuna definizione di uomo nella letteratura psichiatrica a mia disposizione, ho pensato che potevo cercare la definizione che cercavo nel vocabolario della lingua italiana della Treccani: “ Uomo, essere cosciente e responsabile dei propri atti…”

Se essere “ coscienti e responsabili” è un requisito necessario per definire l’uomo, quanti soggetti dobbiamo escludere? Tutti gli uomini sono coscienti e responsabili? E chi non ha queste qualità non è un uomo?

Secondo Siegel tuttavia non possiamo rinunciare a questo punto di partenza necessario per potere procedere oltre.

E anche se non disponiamo di una definizione, possiamo utilizzare una descrizione delle sue qualità essenziali come punto di partenza.

E vedere se le diverse idee sull’uomo ci portano verso modi diversi di vivere e di agire in questo mondo.

Possiamo trovare un primo esempio nel libro di Augusto Cavadi “ Mosaici di saggezze” laddove riporta il pensiero di Edgard Morin: “ L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e dismisura; soggetto di una affettività intensa e instabile, sorride, ride, piange, ma sa anche conoscere oggettivamente; è un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso, angosciato, gaudente, ebbro, estatico; è un essere di violenza e di tenerezza, di amore e di odio; è un essere pervaso dall’immaginario e che può riconoscere il reale; è un essere che conosce la morte e non può credervi, che secerne il mito e la magia, ma anche la scienza e la filosofia; è posseduto dagli Dei e dalle idee, ma dubita degli Dei e critica le idee; si nutre di conoscenze verificate, ma anche di illusioni e chimere.(2)

Questa è l’idea di Edgard Morin sull’uomo.

Possiamo ora considerare un altro punto di vista e studiare quale idea dell’uomo avesse C. Rogers ( frutto di osservazione e di ricerca in contesti psicoterapeutici sia duali che gruppali).

“Contrariamente a quei terapeuti che vedono la depravazione alla radice dell’uomo, che considerano i più profondi istinti dell’uomo come distruttivi, io ho scoperto che, quando è veramente libero di diventare ciò che egli è sul piano profondo, quando è libero di realizzare la propria natura come organismo umano e quindi capace di consapevolezza, allora egli appare chiaramente muoversi verso la totalità e l’integrazione…” “ allora è degno della massima fiducia”.(3)

Fra le tante descrizioni dell’uomo, è dunque possibile rintracciarne diverse, molto differenti tra di loro.

Ma quali sono le conseguenze di queste differenti visioni? Come agiscono su di noi? Come influiscono sul nostro modo di agire nel mondo?

Per Morin la naturale conseguenza del riconoscimento della complessità è la riforma del pensiero. Prima di ogni altra cosa da fare, prima di agire dobbiamo riconoscere e superare la miopia, la visione settoriale con cui guardiamo alla vita.

Se l’uomo e la sua azione nel mondo hanno il carattere della complessità ( a volte anche della contraddittorietà ) solo un pensiero complesso può consentirci di capire la realtà e di agire a favore della vita.

Anzi, è proprio questa riforma del pensiero la missione più importante dell’intellettuale, ma più in generale è una conquista che nel mondo contemporaneo si è resa necessaria. Dobbiamo riuscire a traghettare da un pensiero settoriale, spesso chiuso in se stesso, ad un pensiero globale, capace di abbracciare la molteplicità del reale.

Può consentirci di riconoscere fra tante altre realtà quella che chiama “ La comunità del destino”, una umanità che va guardata come un insieme unico impegnato nella salvaguardia della vita su questo pianeta, senza negare le differenze e le specificità.

La proposta di Rogers  ovviamente è molto differente.

Se infatti, come viene da lui ipotizzato, l’uomo nella sua natura è potenzialmente degno della massima fiducia purchè liberato, allora il compito di chi vuole aiutare un uomo nei più vari contesti ( quindi non solo all’interno di un incontro psicoterapeutico ) è quello di studiare e realizzare le condizioni che rendano possibile la sua liberazione.

E sarebbero tre le condizioni, rivelatesi efficaci nella esperienza psicoterapeutica a suo parere necessarie e sufficienti per avviare e realizzare la liberazione dell’uomo anche in contesti differenti.

Autenticità del facilitatore, accettazione incondizionata dell’altro, accurata empatia sono i tre ingredienti necessari e sufficienti da lui indicati.

Mi sembra che questi due esempi ci facciano vedere come le diverse visioni dell’uomo indichino percorsi e compiti differenti nel nostro rapporto col mondo.

Un’ultima riflessione sembra ancora possibile. Pur essendo visioni molto diverse, a me sembra che abbiano in comune il desiderio e l’impegno di portare un aiuto a questa Umanità, oggi così gravata di incertezze e paure per un futuro che si profila catastrofico per l’intero pianeta  e per la stessa specie Homo.

NOTE

  1. Daniel Siegel: “ Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale”.

                                                                                       Raffaello Cortina Editore 2011

  • Augusto Cavadi: “ Mosaici di saggezze” pag 140   Diogene Multimedia 2015
  • Carl Rogers:  “La terapia centrata sul cliente”                                  Giunti 2019

Compiti e metodo della Psichiatria nell’attuale periodo storico

Autore: Dott. Mario Mu

Care colleghe e cari colleghi,

Nei decenni appena trascorsi, la psichiatria (soprattutto in Italia ma anche in altre parti del mondo) è stata impegnata nel confronto con il superamento degli Ospedali Psichiatrici e in una sua rifondazione nel pensiero e nella prassi.

Il cambiamento è ancora in corso e l’esito piuttosto incerto; e non è superfluo riflettere ancora su quanto è successo in questi anni.

Il trascorrere del tempo cambia lo scenario in cui siamo chiamati ad operare e ci pone nuove domande. Le domande possono essere molto diverse. Da parte mia mi limito ad indicare alcune questioni che a me sembrano prioritarie:

  • Metto al primo posto lo sviluppo di consapevolezza e di capacità di gestione di quella quota DEMENS (per dirla con E. Morin) così presente ed attiva in ognuno di noi. (1)
  • Considero poi necessaria l’acquisizione di una vera consapevolezza dei pericoli potenzialmente letali che stiamo arrecando al pianeta Terra. (2)
  • La consapevolezza (e non soltanto una conoscenza puramente razionale) penso debba riferirsi alla necessità, per la stessa sopravvivenza della specie umana, dello sviluppo di rapporti sociali cooperativi e non discriminanti. (3)

E’ evidente che quanto detto porti necessariamente a delle modifiche nell’impegno lavorativo.

  • Penso che sia necessario privilegiare gli interventi e le pratiche gruppali, perché meglio si prestano a coltivare l’accoglienza dell’altro (anche del “diverso”) e la non discriminazione.
  • E’ opportuno privilegiare programmi operativi finalizzati a favorire rapporti collaborativi e di ascolto profondo tra genitori e figli, soprattutto nei primi anni di vita della prole.
  • Mi sembra saggio limitare nella  professione l’uso di psicofarmaci, a causa dell’incertezza che  caratterizza la conoscenza dei fattori biologici sottostanti, riservando il loro utilizzo alle patologie gravi di tipo psicotico.
  • Rimane tuttavia la convinzione di potere essere utile laddove vengano richieste “consulenze”,  dove lo scopo dell’incontro sia la comprensione del significato della sofferenza, prima di decidere il modo di affrontarla con un coerente progetto terapeutico.
  • Il  modo di lavorare può attingere a fonti che possono appartenere a teorizzazioni ed a contributi diversi, piuttosto che a singole scuole. Inoltre è utile fare riferimento ad alcune tradizioni spirituali sia “ occidentali” che “orientali” che per secoli hanno indagato il funzionamento della mente umana.

Provo a riassumere e a ribadire ulteriormente il senso della mia proposta:

a mio parere l’affermarsi  e il dominare della globalizzazione in questi ultimi anni ci spingono ad allargare lo sguardo, non limitandolo soltanto alla sofferenza individuale.

E’ necessario che si sviluppi una vera consapevolezza della modalità predatoria che caratterizza oggi il rapporto con Madre Terra, e che rischia di distruggere la vita e la nostra stessa specie.

Ed è altrettanto indispensabile rendersi conto della necessità di promuovere e sviluppare nell’umanità la capacità di convivenza e cooperazione, rispettando la diversità e riconoscendole come ricchezza.

Ritengo che la Psichiatria (e la Salute Mentale, oggi assai trascurata) possano e debbano occuparsi di tali condizioni che causano sofferenza a più livelli, nella società, nell’ambiente e in ognuno di noi.

NOTE

1)E’ la sfida lanciata da E.Morin nel saggio dal titolo “ Svegliamoci” Mimesis 2022.

2) Una riflessione convincente e profonda su questo tema si può trovare nel libro che raccoglie il pensiero di Thich Nhat Hanh: “Lo zen e l’arte di salvare il pianeta”. Garzanti 2022.

3) L’importanza della cooperazione è stata studiata, relativamente all’ambito clinico, da G.Liotti. Lo sfondo teorico è costituito dalla teoria cognitivo-evoluzionista. Molte considerazioni tuttavia

possono essere estese oltre l’ambito specifico. Vedi “I sistemi motivazionali nel dialogo clinico”. Raffaello Cortina Editore 2008.

Riflessioni sulla violenza e sulla guerra

Autore: Mario Mulè

Cercare le origini della violenza e della guerra attraverso l’archeologia della mente e l’attenzione alle emozioni “primitive” si rivela un compito poco produttivo.

Tuttavia possiamo riconoscere l’esistenza di alcune pratiche potenzialmente utili ed efficaci.

Più che dalle funzioni cognitive, la speranza sembra provenire da pratiche capaci di stimolare e rafforzare le emozioni prosociali presenti nell’uomo.

Si tratta di una strategia che ha ricevuto un importante supporto dalle ricerche svolte in ambito neuroscientifico.

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A metà degli anni trenta del Novecento Walter Hess, studiando il funzionamento cerebrale di un gatto, osservò che la stimolazione con un elettrodo di un’area specifica del cervello provocava una intensa reazione di collera. Molte discussioni e molte polemiche vennero stimolate dalla pubblicazione di questa ricerca, a partire dal dibattito tra due diverse “ posizioni”: si trattava di “vera” rabbia o “finta” rabbia, come sostenevano i comportamentisti dominanti nel panorama scientifico di quel periodo.

Oggi quasi nessuno dubita che gli animali sentano emozioni che li guidano nel loro apprendimento e nel comportamento. Ma già allora era abbastanza conosciuta la somiglianza, sia anatomica che funzionale, tra tutti i cervelli dei mammiferi. Sembrava quindi che si potesse cominciare a capire l’origine dell’aggressività, negli animali e nell’uomo. Per questa ragione la scoperta, nel 1949, valse ad Hess il premio Nobel.

Oggi viene dato un valore limitato a tale scoperta, anzitutto perché si è capito che strutture, circuiti e meccanismi cerebrali coinvolti nell’emozione chiamata collera sono molto più complesse.

Né sembra che possa fornire una adeguata comprensione dell’aggressività nell’uomo e meno ancora della guerra.

E’ lo stesso Panksepp, fondatore  delle neuroscienze affettive, che ci ammonisce quando ci dice:

“poco di quello che possiamo dire (della collera) può illuminare le cause della guerra nella specie umana.”(1)

Altri studiosi, ispirati dalla teoria dell’evoluzione, hanno rivolto la loro attenzione agli scimpanzè con i quali condividiamo quasi tutto il nostro patrimonio genetico. Hanno argomentato che obbligatoriamente troviamo nell’uomo aggressività e violenza, vista la nostra discendenza da tali animali, notoriamente rissosi e violenti.

Tuttavia una analisi più attenta ed informata mette in dubbio questa convinzione, perché non è dimostrata la nostra discendenza dagli scimpanzè. I nostri antenati potrebbero essere stati i bonobo, molto più pacifici e forse non conosciamo ancora quale specie ci ha preceduto (il famoso “anello mancante” di cui siamo ancora alla ricerca.)

La convinzione di una nostra discendenza da animali violenti è stata sostenuta da autorevoli pensatori. Tra questi troviamo Sigmund Freud cui si deve l’idea di “un’orda primitiva” precedente la civilizzazione umana.

Tale ipotesi finora non ha trovato nessuna conferma dalle ricerche archeologiche, anzi mancano del tutto prove che confermino l’esistenza delle guerre prima di dodicimila anni fa, epoca della rivoluzione agricola. E c’è anche chi sostiene che nella preistoria umana sia stata presente una società matriarcale, più amorevole e prosociale.

C’è anche un’altra ipotesi, anch’essa di derivazione darwiniana, che prende in esame l’istinto predatorio, presente in molti animali, che avremmo ereditato.

Gli studi scientifici, in realtà, ci dicono che l’istinto predatorio è molto diverso dalla violenza e dall’aggressività. Un esempio può chiarire queste differenze: un gatto arrabbiato avrà il corpo inarcato, il pelo irto, per apparire più grande, le unghie fuori dalle zampe, emetterà messaggi minacciosi. Al contrario, un gatto che caccia una preda sarà cauto, silenzioso, attento, si acquatterà per rendersi meno visibile dalla preda.

C’è un altro “istinto primitivo” da esaminare come fattore importante del comportamento violento, l’istinto di potenza. Esso ha ricevuto molti consensi, provenienti da ambiti diversi. Dall’ottica della psicologia comparativa è stato detto, senza mezzi termini: “E’ inutile nascondere questa realtà: siamo una specie gerarchica.(2) Kissinger (vissuto per molti anni vicino ai potenti) affermava che “per i maschi il potere è il sommo afrodisiaco”.

Anche in ambito psicologico e clinico si ipotizza un sistema motivazionale finalizzato a definire il rango, cioè la posizione gerarchica nel gruppo di appartenenza.(3)

La condizione gerarchica, (che implica l’esistenza di capi) merita uno studio attento, ma ha visto finora prevalere le riflessioni in ambito filosofico (Hobbes, Nietzcshe, Macchiavelli). Seneca ha detto: “I potenti della Terra esercitano l’ira come una specie di regale insegna.”

Pochi sono gli studi sui capi. In ambito biologico è stato trovato che negli animali in posizione alfa

si trovano alti livelli di cortisolo, che favorisce una iperattivazione dei sistemi di allarme, dannosa per la salute del corpo e della mente.

In ambito psicologico pochi hanno provato a riflettere sulla personalità dei capi. Uno di questi è stato E. Fromm, che ha dedicato in un suo libro un intero capitolo allo studio della personalità di Hitler.(4)

Visto che sono i capi che decidono di muovere gli eserciti e le armi, potrebbe essere molto utile saperne di più su di loro.

C’è ancora almeno un altro aspetto emotivo da considerare ed è l’odio per il nemico, quasi necessario nelle guerre. Cosa possiamo dire dell’odio? Si pensa che sia un modo di sentire specificamente umano, frutto avvelenato di alcune funzioni evolute, come la capacità di immaginare, di pianificare progetti, compresi quelli di aggressione e di vendetta.

Proviamo adesso a sintetizzare le annotazioni fatte finora: esserci rivolti all’archeologia della mente ci ha consentito di acquisire alcune nozioni utili, ma non di capire l’origine della guerra.

Per questa via, simile a quella seguita da S. Freud nella risposta ad A. Einstein che si interrogava sul perché della guerra, non si arriva molto lontano. (5) Nella sua risposta Freud, alla fine delle sue riflessioni (non certo banali) diceva: “Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno delusa”.

Quando non riusciamo a capire e a risolvere un problema, se siamo capaci di non deprimerci, possiamo pensare ad altri percorsi possibili.

L’avere indagato sulla violenza e su altri aspetti emotivi ad essa collegati ci ha impedito di osservare un campo più ampio? Ci ha impedito, per esempio, di considerare i processi di pacificazione e riconciliazione, così necessari in tutte le specie sociali?

Possiamo ricordarci di ciò che dice Terenzio dell’uomo: “Homo sum. Humani nihil a me alienum puto”. Lo stesso Freud, che considerava essenziale per spiegare la guerra l’istinto di morte, quasi per inciso accenna alla rosa dei moventi (in analogia con le 32 componenti della rosa dei venti).

Possiamo guardare alla nostra natura servendoci di una metafora: dentro ognuno di noi vi sono molti semi diversi (diverse potenzialità). Cresceranno e daranno frutti quei semi che saranno stati innaffiati e coltivati.

Ma è ora di dare parola a ciò che proviene dalle conoscenze neuroscientifiche:  “il cervello è come un muscolo. Se sarà esercitato diverrà più robusto e potente”.

Gli studi neuroscientifici hanno dimostrato la validità di questa affermazione. Oggi sappiamo che   “ neuroni che sparano assieme si aggregano assieme”. (D.Siegel)(6)

Con l’esercizio (la pratica) vengono sintetizzate nuove proteine, si creano nuove connessioni sinaptiche e si rafforzano precedenti connessioni.

Viene stimolata la produzione di mielina che isolando come una guaina gli assoni, ne aumenta la velocità di conduzione fino a cento volte. Addirittura è possibile la produzione di nuove cellule nervose (neurogenesi) a partire dalle cellule staminali.

Ma c’è un altro aspetto molto importante: la mente può dirigere il cervello, può plasmarlo e dargli una sua forma. Fa questo attraverso il direzionamento e la focalizzazione dell’attenzione e la ripetizione (la pratica).

C’è un altro dato, che sembra di notevole importanza e che dobbiamo considerare. Alla nascita il cervello umano è ancora immaturo, non si è ancora pienamente sviluppato. Sono presenti ed attive le parti filogeneticamente più antiche, mentre la corteccia cerebrale è ancora priva di connessioni. Ma è proprio questa immaturità che rende possibile l’apertura all’esperienza e l’assimilazione della cultura.

Oltre la genetica entra in gioco l’epigenesi, cioè lo sviluppo di strutture e funzioni promosse dall’esperienza.

Sappiamo anche che la cultura e l’esperienza incidono in modo molto più intenso nei primi anni di vita.

E’ evidente da queste conoscenze quanta importanza possano avere nell’uomo le relazioni precoci e quanto valore dovremmo dare all’educazione sia intellettiva che emotiva.

Alcune scoperte più recenti hanno poi riconosciuto la presenza di strutture nervose (il ramo ventrale del nervo vago) che, qualora attivate, producono benessere sia nel corpo che nella mente.

Questa componente del sistema nervoso autonomo viene attivato dalle relazioni sicure, che noi possiamo registrare inconsapevolmente ed a prescindere dalla comunicazione verbale.(7)

Perché anche noi possediamo sistemi di comunicazione non verbale, così essenziali nella vita sociale degli animali, che utilizzano mimica, qualità della voce, posizione del corpo, etc.

Se attingiamo inoltre alle conoscenze sulla mente sviluppate dalla psicologia orientale (soprattutto il buddismo) troviamo tra l’altro la seguente affermazione: ogni emozione distruttiva vede nella nostra mente un antidoto capace di neutralizzarla.

Inoltre ci viene detto che, accogliendo le emozioni distruttive e guardandole dall’interno, esse progressivamente esauriscono la loro potenza, fino ad estinguersi.(8)

Una buona notizia ci arriva anche da un orientamento della psicoterapia chiamato cognitivo-evoluzionista. Secondo questo modello, se riusciamo, non solo nel contesto terapeutico, a rimanere dentro una modalità cooperativa (comparsa piuttosto tardi nella storia umana ed è quindi ancora piuttosto debole) possiamo vivere le nostre relazioni in maniera più sana ed equilibrata e sapremo anche guardare la realtà in modo più realistico. (3)

Entro certi limiti possiamo contare anche sulle nostre funzioni superiori di tipo razionale per modulare le emozioni, comprese quelle distruttive.

A questa possibilità mi sembra faccia ricorso Andrea Cozzo, da molti anni impegnato sul fronte della nonviolenza, ci ammonisce però sulle difficoltà che incontriamo se vogliamo praticarla, riportando nel suo libro (9) un brano scritto da Aldo Capitini: “La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per meglio dire, lotta; una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente.”

Proviamo infine a tirare le fila. Siamo ancora lontani dalla capacità di capire perché nel mondo continua ad essere presente la mala pianta della guerra. Possiamo tuttavia intravedere delle possibilità capaci di contrastarla. Possibilità che sono anche responsabilità, la responsabilità addirittura di garantire alla nostra specie la propria sopravvivenza.

La sapienza ebraica incoraggiava a credere ai “tempi messianici”, in cui la violenza umana sarà stata sconfitta e il lupo e l’agnello dormiranno l’uno accanto all’altro. Ma diceva anche che bisognava agire come se i tempi messianici, anzichè lontani, fossero già arrivati.

Come ogni utopia, ci indicava un meta verso cui tendere, per quanto ancora lontana.

Mi sembra che questo insegnamento sia valido anche oggi, un oggi dominato dalla paura e dall’inquietudine e senza la certezza di essere capaci di raggiungere la pace e la convivenza nel mondo.

Bibliografia

  1. Jakk Panksepp e Lucy Biven:      “Archeologia della mente-Origini neuroevolutive delle Emozioni umane”   R.Cortina Editore
  2. Frans de Waal: “L’ultimo abbraccio. Cosa dicono di noi le emozioni degli animali”  R.Cortina Editore
  3. G.Liotti e F.Monticelli: “I sistemi motivazionali nel dialogo clinico”    R.Cortina Editore

     4)   E.Fromm: “Anatomia della distruttività umana. CapXII Oscar saggi Mondadori

     5) “ Perché la guerra? Carteggio tra A.Einstein e S.Freud”  S.Freud “ Opere” Boringhieri

     6) Daniel J.Siegel:  “Mindsight. La nuova scienza della trasformazione  personale R.Cortina Editore

     7) Stephen W. Porges e Deb Dana: “Le applicazioni cliniche della teoria polivagale” G.Fioriti Editore

    8) Dalai Lama-Daniel Goleman: “Emozioni distruttive” Oscar Mondadori

   9) Andrea Cozzo: “ La nonviolenza oltre i pregiudizi” Di Girolamo Editore