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Archivio per la categoria 'Modelli teorici'

Le neuroscienze affettive come stimolo efficace per una crisi evolutiva della psichiatria

Autore: Mario Mulè


Lungo i percorsi del pensiero scientifico ogni tanto può succedere che nuove scoperte non possano essere assimilate all’interno dei paradigmi già esistenti.
Diventa quindi necessaria la messa in crisi delle teorie precedenti e la ricerca di nuove formulazioni teoriche.
Vi sono buone ragioni per ipotizzare, nell’ambito della psichiatria, una crisi provocata dalle conoscenze che ci arrivano dalle neuroscienze affettive ed in particolare dagli studi effettuati da J. Panksepp. Infatti la dimostrazione con metodi scientifici replicabili della presenza in tutti i mammiferi di sistemi affettivi primari ( i cosiddetti “motori primi”, di cui è stato possibile trovare localizzazioni, circuiti neuronali e meccanismi biochimici nelle parti più arcaiche del cervello) non si limita ad aggiungere nuove conoscenze.
Viene dimostrato, in maniera abbastanza convincente, che questi sistemi affettivi ( ricerca, paura, collera, desiderio sessuale, cura, panico/sofferenza ) condizionano in modo rilevante sia i processi di apprendimento, sia le operazioni mentali di ordine superiore presenti nell’uomo.
Le ricadute possono riguardare: a) la nosografia psichiatrica, b) l’interpretazione della psicopatologia, c)la psicoterapia, d)la psicofarmacologia, e) la pedagogia, f)più in generale la visione della mente umana.


A) L’attuale nosografia psichiatrica si basa su intuizioni che abbiamo ereditato da “ pionieri” come Bleuler, Freud, Kraepelin. Questi autori potevano contare sulle loro osservazioni del comportamento e sui resoconti forniti dai racconti dei pazienti.
Non potevano quindi costruire le loro teorie usufruendo delle conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso che si sono sviluppate successivamente.
Forse è utile ricordare che Freud, dopo un tentativo di capire i fenomeni mentali basandosi sulle conoscenze disponibili alla fine dell’800, ha dovuto desistere, dichiarando esplicitamente che il suo “Progetto per una Psicologia” era folle, e che doveva essere imboccata un’altra strada.
Peraltro, il sistema diagnostico attualmente dominante è apparso a molti studiosi discutibile per vari motivi, uno dei quali è la moltiplicazione inverosimile delle sindromi psichiatriche nei passaggi dal DSM I al DSM V.
E cominciano ad apparire proposte di sistemi diagnostici alternativi che inquadrano i disturbi mentali a partire proprio dai sistemi emotivi primari basandosi quindi su metodi sperimentali.


B ) I disturbi psicopatologici possono essere interpretati (almeno in parte) come alterazioni di ordine quantitativo di alcuni sistemi emotivi di base e sulle influenze degli stessi sui processi mentali successivi di apprendimento e di pensiero simbolico ed astratto.
Ad esempio, una condizione psicotica può essere vista come una disfunzione del sistema della ricerca, mediato dalla dopamina.
Una eccessiva attivazione potrebbe essere implicata nella produzione di pensieri irrealistici e di collegamenti impropri, mentre la condizione depressiva potrebbe in parte derivare da una ipofunzionalità dello stesso sistema.
Così come una eccessiva attivazione del sistema della paura (per influenze costituzionali o per esperienze acquisite) potrebbe in parte contribuire a capire vari quadri clinici raggruppati come disturbi d’ansia.


C) Una visione del funzionamento mentale che pone in primo piano i sistemi affettivi primari non si pone in contrasto con la psicoterapia, anche se ne suggerisce alcune correzioni.
Se prendiamo in esame la psicoterapia psicoanalitica, possiamo constatare che Freud aveva riconosciuto i fondamenti biologici alla base della via mentale, ma ne aveva segnalato due soltanto (eros e tanatos).
Basandoci su quanto emerso dalle neuroscienze affettive, dobbiamo guardare ai fondamenti affettivi come più ricchi e diversificati, riconoscendo almeno sette sistemi primari (ma con la possibilità che se ne possano individuare ancora altri).

Un altro aspetto è relativo ai fattori terapeutici realmente efficaci: basandoci sui dati delle neuroscienze affettive dovremo ancora essere attenti alle sofisticate produzioni simboliche e cognitive degli esseri umani, ma considerando anche il potere influenzante che i “motori primi” continuano ad esercitare per tutta la vita e valorizzando quelli che possiamo considerare nel loro insieme prosociali.
Sono sempre più numerose le ricerche che collegano salute mentale e buone relazioni sociali: l’ultimo numero della rivista “Mind” ha scelto come titolo “ Il potere delle relazioni”, riportando vari studi che illustrano il ruolo fondamentale delle relazioni prosociali per il benessere psicofisico.


D) La psicofarmacologia potrebbe fare un salto qualitativo se riuscisse a modificare i meccanismi biochimici specifici dei vari sistemi affettivi fondamentali.
Sappiamo che gli psicofarmaci attualmente disponibili non sono specifici, con la conseguenza di numerosi effetti collaterali indesiderati (vedi le terapie con neurolettici) oppure con farmaci attivi su numerose sindromi, come avviene con gli antidepressivi serotoninergici, che non solo hanno effetti collaterali indesiderati, ma presentano periodi di latenza piuttosto lunghi, sollevando dubbi sul meccanismo di azione (riduzione della ricaptazione della serotonina). Alcuni indizi fanno pensare ad una azione riparativa, che può richiedere più tempo, ma che al momento è solo una ipotesi.
Vi sono stati tentativi di utilizzare molecole più specifiche: per esempio, la bupremorfina, agonista a piccole dosi e antagonista a dosi più elevate dei recettori degli oppioidi endogeni, potrebbe modificare velocemente una condizione depressiva (caratterizzata da un deficit degli oppioidi endogeni) sfruttando la conoscenza dei meccanismi biochimici coinvolti nella depressione.
Prospettive certamente interessanti, ma che richiedono conferme attraverso piani di ricerca (ad esempio, studi in doppio cieco, peraltro già in corso) prima di una autorizzazione ad un uso in ambito clinico.
Per inciso, vale la pena di ricordare che gli oppioidi interni vengono prodotti all’interno di specifici siti cerebrali attraverso le varie forme di cura, che vanno dalla toelettetura praticata su molti animali alle relazioni di cura attivate nelle relazioni umane; è evidente che questi dati ripropongono l’importanza delle relazioni prosociali nell’ambito psicoterapeutico e nella vita di ognuno di noi.


E) Nell’ambito educativo è decisiva l’osservazione che le nostre emozioni positive possono essere coltivate e rafforzate da esperienze affettive prosociali.
Questa convinzione non è certo una novità, dal momento che già tradizioni spirituali di varia provenienza hanno considerato che emozioni prosociali (come la compassione universale o l’amore per il prossimo) sono alla base della salute mentale.
Purtroppo ancora non si vede riconosciuta abbastanza l’importanza di tali esperienze nelle funzioni genitoriali e in ambito scolastico, anche se cominciano a realizzarsi esperienze pilota nei contesti educativi e nella pratica terapeutica (Gilbert ).
A tutti noi viene presentata una proposta che vede l’uomo non soltanto portatore di funzioni superiori (homo sapiens sapiens) ma come un essere che appartiene anch’esso alla natura, essendo frutto di un lungo percorso evolutivo.
Oltre alle funzioni cognitive e simboliche (processi terziari) bisogna considerare anche i processi primari (affettivi) e secondari (di condizionamento e di apprendimento) tra loro intrecciati ed interagenti.


F) Cosa si può dire delle ricadute acquisite con le neuroscienze affettive sulla pratica clinica?
Posso solo riferire qualcosa della mia esperienza di psichiatra e di psicoterapeuta.
Forse ci permette una visione decolpevolizzante e depsichiatrizzante dei disturbi mentali.
Ma non certo deresponsabilizzante, perché la consapevolezza di una quota irrazionale in ognuno di noi ci obbliga piuttosto ad impegnarci per diventare soggetti (per quanto possibile) del nostro funzionamento mentale.
In questo ci possono aiutare alcune pratiche provenienti dal mondo orientale (mindfulness) senza sottovalutare quelle di casa nostra, più orientate all’azione (ruminare, riprendere, trasformare come avviene con i tre stomaci della mucca).
Tutte funzioni molto utili anche in ambito terapeutico, anche se spesso non risolutive.


Infine proverei a confrontare quanto è stato proposto con il pensiero filosofico e con l’epistemologia contemporanea.
Viste le mie scarse conoscenze in questo ambito (e consapevole di poter essere corretto o smentito) mi limito al confronto con quanto proposto da E. Morin.
Morin definisce l’uomo sapiens-demens. L’aspetto demens non ha una connotazione negativa, vuole solo indicare la presenza di una dimensione irrazionale, di cui gli aspetti emotivi, provenienti dalla evoluzione, sono una parte rilevante.
Ci avverte anche che la parte irrazionale, oltre a costituire una realtà innegabile, è anche fonte di vitalità e di gioia.
La sua proposta è quindi di esercitare autocritica e consapevolezza al fine di aumentare la quota di saggezza, senza tuttavia negare o disprezzare quella irrazionale.
Una visione lontana dal rinnegare le componenti emotive e che invece valorizzi, pur da una angolazione diversa, la complessità della natura umana e la necessità di uno sguardo capace di coglierla.



Biblografia

1) J.Panksepp-L.Biven: “ Archeologia della mente “ R. Cortina Editore
2) J.Panksepp-L.Davis: “I fondamenti emotivi della personalità” R.Cortina Editore
3) Manuel Cappello: “Le emozioni di base secondo Panksepp-Introduzione e connessioni filosofiche.
4) E.Morin: “ Amore, Poesia,Saggezza” Armando Editore
5) P.Gilbert: “ La terapia focalizzata sulla compassione” Franco Angeli Editore
6) D.Goleman: “La forza del bene” cap. 10 Rizzoli Editore
7) Frans de Waal: “Il bonomo e l’ateo- In cerca di umanità fra i primati” R.Cortina Editore
8) Frans de Waal: “L’ultimo abbraccio- Cosa dicono di noi le emozioni degli animali Cortina Editore

Attenzione! Sta arrivando Charles Robert Darwin

Autore: Mario Mulè

Cari colleghi “ Psi”, care amiche, cari amici,

ho scritto questi appunti spinto dal desiderio di scambiare quattro chiacchiere, senza altre pretese.

Se qualcuno vorrà chiacchierare, gliene sarò grato. Altrimenti pazienza, cercherò di riflettere da solo, anche se questa modalità mi risulta più difficile e meno piacevole.

Serve un titolo? Può andare bene il seguente:

Attenzione! Sta arrivando Charles Robert Darwin

Per una breve sintesi:

Nuove conoscenze provenienti dalle neuroscienze affettive, dalla psicologia comparata e da altre fonti hanno dato nuova enfasi ai fattori biologici alla base del comportamento umano e ad una visione evoluzionista. Tali conoscenze costringono a riconsiderare il reciproco rapporto fra natura e cultura. Inoltre promettono di fornire alla psichiatria ed alla psicologia prospettive nuove e di rendere più comprensibili le difficoltà che spesso si incontrano in psicoterapia quando questa si propone di avviare cambiamenti non soltanto sintomatici.

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Alle soglie del Novecento Sigmund Freud propose un “Progetto per una Psicologia”, fondato sullo studio del cervello.

Egli stesso in seguito prese un’altra strada e definì il progetto improponibile e folle; e forse a quel tempo lo era davvero.

Dopo oltre un secolo l’onda lunga della biologia sta arrivando sulle sponde della psichiatria e della psicologia e le costruzioni ed i paesaggi mentali da loro costruiti in questo secolo stanno subendo profondi cambiamenti.

La biologia sta avanzando irresistibilmente, sospinta dall’evoluzionismo e dalle nuove conoscenze consentite dal progredire delle tecniche.

Risonanza magnetica funzionale, PET, stimolazione profonda del cervello, sonde farmacologiche ed altre tecniche molto sofisticate stanno fornendo strumenti per un balzo in avanti prodigioso.

Ci viene consegnato, anno dopo anno, un patrimonio di conoscenze che non possiamo ignorare, sia che si faccia ricerca, sia che si lavori artigianalmente nella propria stanza di terapia.

Prendiamo, ad esempio, quanto ci dicono le neuroscienze affettive.

Panksepp ed altri hanno documentato in maniera molto convincente l’esistenza di “motori primi”, cioè di strutture collocate in parti antiche del nostro cervello, che sono le fondamenta delle nostre funzioni affettive e delle nostre emozioni.

Hanno avuto questo nome in quanto attivatori di comportamenti e apprendimenti. Si tratta di strutture e di funzioni molto potenti, essendo una eredità evolutiva che ha funzionato per milioni di anni, rendendo grandi servigi alle specie che le possedevano.

Tutti i mammiferi ne sono dotati, uomo compreso.

Il fatto che Homo sapiens possegga ulteriori capacità (razionalità, linguaggio, immaginazione, etc) non comporta la loro disattivazione, anzi la loro influenza si fa sentire anche quando queste funzioni superiori vengono messe in atto.

A parere di questi studiosi è già possibile inquadrare le varie personalità e le relative disfunzioni proprio a partire dalla conoscenza dei “ motori primi”, e di fatto esistono le relative scale di valutazione per una loro applicazione clinica. Lo stesso DSM5 ha preso in considerazione questo modello, anche se ancora non lo ha adottato.

Anche molte sindromi psichiatriche verrebbero spiegate ( e forse, in futuro, curate) a partire da queste conoscenze.

Panksepp ha descritto i principali motori primi, rintracciando le strutture cerebrali coinvolte ed i relativi sistemi biochimici:

Ricerca, Rabbia, Paura, Gioco, Cura, forse anche Sessualità sarebbero già localizzabili in specifiche aree cerebrali, assieme ai neurotrasmettitori attivi in quelle aree.

Anche Paul Gilbert si muove in questo scenario e propone un sistema semplificato, composto da tre componenti (sistema di allarme e di protezione dalla minaccia, sistema di ricerca di stimoli e risorse, sistema calmante di appagamento e sicurezza ) che interagiscono tra loro.

La proposta di Giovanni Liotti prende in considerazione cinque Sistemi motivazionali interpersonali ( attaccamento, accudimento, agonismo, sistema sessuale, cooperazione paritetica). Anche per Liotti i sistemi motivazionali interpersonali, eredità filogenetica e patrimonio di tutti i primati, sono a fondamento della vita interpersonale: “tutta la vita interpersonale dell’uomo deriva da articolazioni e sviluppi di questi sistemi…e continua a poggiare su di essi dalla culla alla tomba…”

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L’esistenza di un fondamento biologico alla base del comportamento e delle funzioni mentali umane non è una novità. Basti qui ricordare la posizione di Freud e il suo concetto di Es ( nelle sue componenti di Eros e Tanatos )come una delle tre componenti costitutive dell’apparato psichico ( assieme ad Io e Super Io ).

Ma anche un autore come E. Fromm, che pure ha valorizzato il ruolo dei fattori culturali e sociali, non ha mai negato la componente costituzionale. Emblematica è la sua affermazione, apparentemente paradossale:                          “ natura al 100%, cultura al 100%” .

Non credo sia corretto enfatizzare troppo l’importanza dell’aspetto biologico, perché non vi è dubbio che l’uomo sia fortemente condizionato dai sistemi culturali in cui nasce e vive.

D’altra parte a mio parere è piuttosto estremista e non condivisibile l’affermazione di alcune scuole di psicologia le quali sostengono che “la natura dell’uomo è la sua cultura”.

Le forze in gioco sono tante, né si può sottovalutare l’influenza sull’umanità del sistema economico. Forse hanno visto bene coloro che hanno riconosciuto un particolare “ fenotipo” umano, frutto dell’attuale sistema consumistico-capitalistico, che hanno chiamato “homo consumens”.

Altri ancora ci segnalano le idee e l’immaginazione umana come i veri propulsori della storia e portano come esempio la nascita dal 15°secolo in poi del concetto di un “oltre”, di mondi e saperi ancora sconosciuti e da esplorare.

Da qui avrebbero avuto avuto inizio le grandi scoperte geografiche                   (anche se i finanziamenti che le rendevano realizzabili provenivano da società finanziarie e da banche del capitalismo nascente).

Dobbiamo accettare dunque che le varie scienze dell’uomo (biologia, economia, psicologia, antropologia, paleontologia, etc) procedano ancora separate, non essendo ancora disponibile un modello capace di tenere insieme le tante variabili in gioco?

Anche accettando la parzialità di un approccio biologico e più specificamente evolutivo, non credo sia corretto considerarlo accessorio o marginale.

Dopotutto, dietro le scrivanie delle banche oppure come timonieri di navi (oggi di navicelle spaziali) vi sono sempre donne e uomini in carne ed ossa, con le loro emozioni.

Possiamo dunque attribuire legittimità ed importanza ad un approccio biologico-evoluzionista, ma dobbiamo riconoscere subito che sorgono e si impongono alcune domande che cercheremo di illustrare.

  1. Non possiamo certo pensare che i contributi neuroscientifici abbiano già fornito una conoscenza esaustiva del cervello. E’ ancora un mistero come si origina la coscienza, tanto meno abbiamo idea di come fanno impulsi chimici ed elettrici a trasformarsi in sentimenti, pensiero, fantasia.

Se quindi le nostre conoscenze sulla macchina della mente sono così parziali, che possibilità abbiamo per una farmacoterapia che poggi su basi sicure?

Potrebbe avere buone ragioni chi ha sostenuto (R.Whitaker) che “ i cambiamenti indotti dai farmaci nella chimica della mente possono provocare processi antagonisti che gradualmente destabilizzano siffatta chimica al punto di non potere raggiungere un senso di normalità”?

Un esempio di questa tragica eventualità è sotto gli occhi di ogni psichiatra ed è la discinesia tardiva, indotta dai neurolettici e sostanzialmente incurabile ed invalidante.

  • Una regola fondamentale dell’evoluzione è che non viene mai abbandonato quanto acquisito e che migliora il funzionamento e la sopravvivenza della specie. Ad esempio, dopo che è stato “inventato” l’apparato circolatorio, ha continuato ad essere presente in tutti gli organismi delle specie successive.

C’è qualche valido motivo per pensare che questo non debba valere per i “motori primi”, che hanno consentito l’affermazione dei mammiferi per milioni di anni?

Il nostro cervello unitrino ne è testimone, visto che non ha abbandonato le strutture e le funzioni che si erano sviluppate prima dell’ homo sapiens.

Come abbiamo visto prima, ormai sono in tanti che ne riconoscono il ruolo fondamentale nel nostro funzionamento mentale orientandolo e forse (a volte) determinando la sua direzione.

  • Sappiamo che oggi esistono centinaia di modelli di cura in ambito psicoterapeutico.

L’ipotesi di pervenire ad una “psicoterapia senza aggettivi” fino ad oggi è rimasta solo un desiderio.

Molte delle terapie attuali si basano sulla modifica di funzioni corticali puntando sulla metacognizione o sul riconoscimento e la correzione di errori cognitivi.

Anche nelle principali correnti psicoterapeutiche in realtà si vedono integrazioni ed aggiornamenti che tengono conto (in parte) di acquisizioni provenienti dalle neuroscienze o da ricerche relative alla dimensione emotiva: molti psicanalisti, ad esempio, hanno cooptato i risultati delle ricerche sull’attaccamento. Liotti, di scuola cognitiva, arricchisce il suo approccio con concetti di derivazione evoluzionista, tanto da definire la propria impostazione cognitivo-evoluzionista. In particolare ha molto valorizzato il sistema interpersonale cooperativo paritetico come necessario per una efficace pratica terapeutica.

Modelli che prendano avvio dalla conoscenza dei fondamenti emotivi e dalle neuroscienze non sono ancora numerosi.

Siegel propone l’esercizio della “ruota della consapevolezza” mentre Gilbert utilizza pratiche immaginative ritenute capaci di attivare sistemi (come, ad esempio, quello calmante) di cui si conosce la base anatomica e neurochimica.

Facciamo un esempio: un paziente con disturbi d’ansia potrebbe immaginare un posto sicuro, ripetendo molte volte questa pratica, in modo da modificare un funzionamento che vede troppo attivo il sistema di allarme. Oppure il paziente potrebbe incarnare (come fosse un attore che entra nella parte con tutto se stesso) un personaggio compassionevole, per modificare modalità di funzionamento autocritico guidate dalla vergogna e sviluppando un rapporto con se stesso e con il mondo all’insegna della compassione.

E’ difficile dare un giudizio su queste nuove pratiche: quando si tratta di modificare strutture innate e modalità di comportamento e di pensiero affermatisi nel corso di tanti anni modellati dall’esperienza o di deviazioni indotte da eventi traumatici, le pratiche immaginative sono efficaci e sufficienti?

  • Se allarghiamo un po’ il campo di osservazione possiamo vedere che cambiamenti più o meno straordinari o miracolosi vengono descritti in opere letterarie o nelle tradizioni religiose.

Quelli che qui ci interessano maggiormente sono i cambiamenti della personalità, un vero rompicapo per ogni terapeuta.

Uno di questi esempi letterari ci viene fornito da Dostoevskij ne “I fratelli Karamazov”, quando descrive lo starec al cui convento si recano tante persone sofferenti che sperano nelle sue straordinarie qualità di guaritore.

Ad una lettura superficiale può sembrare che il suo intervento altro non sia che l’insegnamento del Vangelo cristiano e il rinsaldamento della fede. In realtà l’incontro con i fedeli sofferenti è reso straordinario dalle qualità dello starec.

Quando egli accoglie la madre disperata ed inconsolabile per la morte del bambino (una depressa?) sta riversando su di lei una pietà immensa, un amore compassionevole che avvolge tutta la persona, mentre le posa la mano sul capo e le dà la sua benedizione.

Ma anche l’Innominato manzoniano o il ladro Jan Vajian di Victo Hugo fanno una simile esperienza, che cambia per sempre la loro personalità.

Dello stesso genere è l’esperienza che ci racconta lo scienziato Paul Ekman. Quando ha incontrato il Dalai Lama: “In quei 5-10 minuti mi sentii inspiegabilmente avvolto da un calore fisico, un calore meraviglioso in tutto il corpo ed in faccia.”

Ekman sostiene che quell’incontro ha cambiato la sua vita, rivoluzionando le sue modalità relazionali e rindirizzando anche la sua ricerca in ambito psicologico.  

Molto interessanti sono anche i racconti che possiamo recuperare dalle tradizioni religiose. Qui viene ribadito che un cambiamento richiede scelte radicali, perché non possono esistere mezze misure.

“ Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, dice Gesù di Nazaret all’uomo che voleva seguirlo, ma chiedeva di poter prima andare a seppellire il padre defunto.

Una pretesa, quella di Gesù, che può apparire eccessiva, ma che indica chiaramente la necessità di una scelta veramente radicale.

E non era così anche per chi voleva seguire Budda? E per gli Stoici? E per gli Epicurei? Ma può chiedere tanto un terapeuta ad un suo paziente?

E tanto anche a se stesso?

Questi esempi letterari e questi racconti tratti dalle tradizioni religiose potrebbero indicare che i cambiamenti nell’uomo avvengono solamente in condizioni straordinarie?

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Circa 80.000 anni fa un singolo cambiamento nel funzionamento cerebrale ha dato all’uomo nuove capacità: la capacità di una intenzionalità congiunta (visibile già in un bambino di nove mesi) e di una intenzionalità collettiva (al 3° anno di vita) avrebbero dato inizio alla cultura umana, con ricadute enormi sulla specie Homo sapiens.

In un lasso di tempo che nella scala evolutiva è solo un battito di ciglia, Homo sapiens (sapiens?) è diventato il signore dell’intero pianeta (ed il terrore dell’ecosistema).

E già pensa di scavalcare ed andare oltre le regole della natura (e della evoluzione) diventando lui stesso creatore di una nuova natura nata dalla sua intelligenza.

Nel 2020 è arrivata la pandemia, un vero e proprio attacco frontale all’onnipotenza ed all’idea di un progresso ed una crescita senza limiti del benessere umano.

Stiamo assistendo a fenomeni che in psichiatria vengono considerati psicotici (negazione, pensieri paranoici di complotto, pensieri magici, etc).

Come guardare dunque all’uomo? E’ un essere che si è evoluto fino a diventare un dio, ricco di tecnica, di pensiero, capace di guardare la verità dentro di sé e nel mondo?

Oppure funziona ancora determinato dai “motori primi” (oltre che da altri condizionamenti socio-culturali )?

Oppure è entrambe le cose insieme?

La mia convinzione è che dentro di noi c’è l’uno e l’altro.

Sono arrivato a questo convincimento aiutato dalle scoperte e dalle riflessioni di tanti studiosi che hanno cercato di capire l’uomo, e poi ci hanno trasmesso quanto avevano capito (ecco l’importanza del linguaggio e della cultura!).

Ed il materiale su cui studiare certo non manca: è abbondante non solo perché viene portato ogni giorno nella stanza di terapia; in realtà è sempre davanti a noi. Ed anche dentro di noi, visto che arriva quasi ogni notte con i nostri sogni.

Pochi praticano l’autoanalisi, ma chi lo ha fatto ha dichiarato che considerava questa pratica “meditativa” l’attività più importante della giornata.

A me pare che noi possediamo sia l’eredità evolutiva, sia altre capacità esclusivamente umane.

L’eredità evolutiva tuttavia non va demonizzata: intanto è una realtà e non serve a niente negarla.

Ma poi perché dovremmo guardare, per esempio, al sistema di cure o al sistema di rango come una imperfezione della natura umana? Cosa sarebbe l’umanità se non ci fosse il sistema di cura, così essenziale per la crescita e la sopravvivenza stessa del cucciolo dell’uomo?

Tutti i “motori primi” hanno avuto ed hanno ancora innegabili “ valori” e funzioni essenziali per la vita. Spesso però ci imprigionano, perché naturalmente dati come troppo potenti oppure perché resi tali dalle esperienze (soprattutto precoci) cui siamo andati incontro nella nostra storia di vita.

Abbiamo la possibilità di sceglier e di essere liberi? A volte si, altre volte questo non è possibile. Certo possiamo assumerci l’obbligo di un impegno, ma dobbiamo riconoscere, per noi e per gli altri, che non sempre l’impegno riesce efficace. Certo è però che l’uomo non ha sconfitto la sofferenza, e spesso viene a bussare alla nostra porta di psicoterapeuti e di psichiatri per essere risanato.

Che mezzi possediamo?

Abbiamo un po’ di farmaci (da usare con prudenza ); molti li richiedono perché congruenti con la nostra cultura “ tecnologica” in cui tutti viviamo.

Possiamo avere sviluppato un po’ di conoscenza e di sensibilità che ci consente di sintonizzarci con l’altro e dare un senso alla sua sofferenza.

Non dobbiamo però pretendere di essere potenti, perché le forze in gioco, siano esse naturali oppure sociali e culturali, possono essere molto potenti. Forse anche noi terapeuti abbiamo sviluppato troppa onnipotenza. Ci siamo dimenticati che curare è, in primo luogo, prendersi cura, condividere, non lasciare solo chi sta male.

Per concludere (anche se non c’è una conclusione) vorrei dedicare un pensiero (compassionevole) a chi rimane sconfitto, come accade spesso, ai pazienti più gravi (gli psicotici). Vorrei farlo in forma di poesia, arrivata un giorno chissà da dove…

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Anime malate

Nel frastuono del mondo

si sono perse, dissolte

quelle grida, quei pianti,

i singhiozzi, il furore.

Ma qualcuno racconta

di una casa, di un santo

che ridona salute

che dà vita e speranza.

Già qualcuno è partito

sogna abbracci, calore

Già qualcuno ritorna

con lo sguardo ormai spento

e trascina i suoi passi

con la morte nel cuore.

Letture di riferimento

  1. Jaak Panksepp e Kenneth L. Davis: “ I fondamenti emotivi della personalità”                                                          R. Cortina
  2. P.Gilbert: “La terapia focalizzata sulla compassione”  F.Angeli
  3. Frans de Waal: “ L’ultimo abbraccio”                 R. Cortina
  4. Hanna Wolf: “Gesù psicoterapeuta”                  Ed. Queriniana
  5. G.Liotti: “La dimensione interpersonale della coscienza”– Carocci
  6. M.Tomasello: “Divenire Umani”                                     R.Cortina
  7. Brian Hare e Vanessa Woods: “La sopravvivenza del più amichevole”

                                                                                     Le Scienze—Ottobre 2020

  • Y.N.Harari: “ Sapiens- Da animali a dei”                   Bompiani
  • Daniel J.Siegel: “Diventare consapevoli”                       R.Cortina

Chi volesse contribuire al dibattito sul tema, può scrivere all’indirizzo mail: mario.mule@alice.it

Una vacanza particolare

Fonte : “Report di un’esperienza di psicoterapia di gruppo integrativa residenziale”  di Mario Mulè

Alla fine, resta solo la gentilezza ad avere un senso…
è solo lei che, tra la folla del mondo, alza la testa e dice:
“E’ me che stavi cercando”.
E da allora ti segue ovunque, come un’ombra o un amico…
“La mia religione è la gentilezza” ( Dalai Lama )

“Questa esperienza per me è stata una vacanza..” Gianni, uno dei pazienti del gruppo, ha così definito quella esperienza insolita di terapia di gruppo: insolita perché realizzata in una dimensione non abituale per il luogo ( una fattoria sociale lontana dai rumori del quotidiano ), per il tempo ( dal venerdì pomeriggio al sabato pomeriggio ), per le pratiche terapeutiche ( si sono alternati psicodramma, gruppoanalisi e mindfulness, spesso intrecciando tra loro queste esperienze ).

Ma non è riduttivo e deludente definire una esperienza di terapia intensiva una vacanza?

No! Se si guarda ad una vacanza come ad una condizione in cui gli affanni quotidiani cessano, per lasciare spazio ad una condizione di libertà interiore e di pace.

Il gruppo: era composto da sei pazienti, che avevano già vissuto una lunga esperienza di terapia condotta secondo un modello ad ispirazione gruppoanalitica, ma con alcune varianti “ trasgressive”. I partecipanti al gruppo avevano infatti la libertà di sentirsi e vedersi al di fuori del gruppo, purchè quanto succedeva venisse poi riportato dentro il gruppo. Ma l’aspetto più rilevante è stata la trasformazione dell’altruismo e della solidarietà tra i partecipanti in azioni concrete di aiuto: una paziente gravemente depressa che viveva sola è stata ospitata da una persona del gruppo; un paziente in gravissime condizioni economiche è stato aiutato in vari modi, con prestiti di denaro e con l’affidamento di piccoli lavori adeguatamente retribuiti.

La solidarietà non poteva certo limitarsi ai partecipanti: il conduttore ha posto come regola del pagamento ( per altro fissato in tariffe assai modeste ) che avrebbero pagato solo coloro che potevano. Di fatto, due dei partecipanti sono venuti regolarmente per un periodo di circa due anni in modo del tutto gratuito.

Le diagnosi psichiatriche erano le seguenti: disturbo bipolare( con pregresso tentativo di suicidio tramite defenestrazione dal terzo piano), depressione ricorrente, alcolismo e disturbo dipendente di personalità, disturbo ossessivo, fobia sociale, disturbo di personalità con prevalenza di tratti borderline, depressione cronica.

Continua..

Psicoterapia di Comunità

Fonte: “Psicoterapia di Comunità. Clinica della partecipazione e politiche di Salute mentale” Edizioni FrancoAngeli, 2010 Raffaele Barone, Vincenzo Bellia, Simone Bruschetta

Questo volume tocca argomenti non proprio nuovissimi: la psichiatria territoriale, il lavoro di rete, la psicoterapia nei servizi e altrove, la residenzialità psichiatrica, l’inclusione sociale, il reinserimento occupazionale, la riabilitazione e via dicendo. È pur vero che sono questioni assai rilevanti dal punto di vista delle pratiche clinico-assistenziali: un altro libro che se ne occupi, perciò, forse non è del tutto fuori luogo, a condizione che il testo sia supportato da un dignitoso retroterra teorico e che sia sottoposto a una convincente operazione di lifting. Male che vada, finirà in mano a qualche centinaio di studenti, a qualche dozzina di colleghi e, per un paio d’anni, farà capolino sulle bibliografie di altri libri consimili.

Questo libro ha impostazione teorico-pratica, perciò nelle pagine che seguono parleremo di una serie di cose e discuteremo di alcune idee. C’è da fare un’osservazione preliminare, però: ci ha sempre colpito il fatto che il pensiero psicologico-clinico, pur in continua evoluzione, abbia prodotto una trasformazione solo trascurabile delle tradizionali pratiche psichiatriche, pur sottoposte a un continuo e severo vaglio critico. Parallelamente, le esperienze innovative realizzate in questi anni nell’arcipelago della salute mentale non sembrano aver innescato un significativo cambiamento delle teorie di riferimento, talché il discorso psichiatrico mantiene sostanzialmente l’intelaiatura dei modelli psicologico-clinici tradizionali. Continua..

Gruppoanalisi e Comunità Terapeutica

Fonte : “Gruppoanalisi e Comunità Terapeutica. Uno strumento di lavoro basato su supervisione, valutazione e ricerca” Edizioni FrancoAngeli, 2010 Raffaele Barone, Simone Bruschetta, Serena Giunta

L’intento di fondo che ci ha guidato nella redazione di questo libro è stato quello di fornire degli orientamenti teorici ed empirici sul dispositivo della Comunità Terapeutica intesa gruppoanaliticamente come setting specifico per la cura dei casi gravi orientato alla guarigione. Ma anche di presentare la metodologia e l’epistemologia gruppale nelle sue varie modalità operative ed applicazioni cliniche, con particolare riferimento ad aspetti ed esperienze terapeutico-analitiche (osservazioni in gruppo, carte di rete, gruppi terapeutici e gruppi di supervisione) effettuate ed osservate direttamente sul campo.

Sulla base di tali esperienze intendiamo contribuire alla riflessione scientifica e culturale sul contributo che le Comunità Terapeutiche hanno dato e possono ancora dare all’idea di una guarigione dalla grave patologia mentale; oggi intesa come reale obiettivo terapeutico secondo i più recenti orientamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Consideriamo infatti parte integrante della nostra pratica clinica la tensione etica verso una guarigione dalla patologia mentale che segua la definizione di Salute Mentale data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sin dal 2001, nel rapporto intitolato: Nuova visione, nuove speranze.

“La salute mentale è uno stato di benessere nel quale il singolo è consapevole delle proprie capacità, sa affrontare le normali difficoltà della vita, sa lavorare in modo utile e produttivo ed è in grado di apportare un contributo alla propria comunità”.

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