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Corpo e vissuto somatico nella schizofrenia

Fonte:“Trasformazioni del vissuto somatico nella schizofrenia” C. Moscatello in “Psicopatologia della schizofrenia”, a cura di Rossi Monti

In questo tentativo di avvicinamento, clinico e fenomenologico, al “senso” che riveste l ‘ esperienza della corporeità in psicopatologia il proposito di chi scrive è quello di rendere in qualche modo accessibili a un ascolto partecipe zone inedite, oscure, indicibili dell ‘ esperienza psicopatologica della corporeità.

Come è noto, la psicopatologia e la psichiatria clinica si misurano sempre, di fronte a ogni manifestazione psicotica, con la ineludibile presenza del corpo e con la sua perentoria dignità espressiva. Le modificazioni dell’esperienza del corpo, dalle più ineffabili sensazioni di cambiamento e di depersonalizzazione fino alle più trasfigurate metamorfosi deliranti, ivi compresi gli enigmatici vissuti somatici dell’ipocondria, costituiscono un tema costante e centrale della psicosi. “Il corpo da un lato e il mondo dall’altro -scrive Benedetti (1991) -rappresentano i due grandi palcoscenici su cui l’Io psicotico avverte se stesso.”

Infatti l’esperienza della propria identità, anche nelle sue declinazioni psicopatologiche più sfumate e clinicamente silenti, coinvolge sempre la corporeità, che è di questa parte integrante, essendo l’identità psichica e quella somatica in un rapporto di impregnazione reciproca e di connessione inestricabile. È come dire che tutto ciò che sfalda in qualche modo l’identità in quanto vissuto psichico,

altera e sfalda anche il senso dell’identità corporea e fisiognomica.

La psicopatologia è particolarmente interessata all’ascolto, alla descrizione e all’analisi di quei peculiari vissuti in cui l’abnorme esperienza del proprio corpo rappresenta un aspetto parziale e complementare di una abnorme esperienza della totalità dell’Io. Tali vissuti, sempre presenti nel quadro dell’invasione psicotica, sono, per la loro stessa natura, ambigui, ineffabili, spesso incomunicabili, talora espressi obliquamente attraverso travestimenti metaforici. Grandissimo tuttavia è l’interesse, o addirittura il fascino, che questi fenomeni suscitano nello psicopatologo, proprio perché si ha l’impressione di trovarsi di fronte al nucleo ancora misterioso di tutta la fenomenologia psicotica. In una prospettiva di ricerca tesa a superare il limite della mera trasversalità descrittiva, essi sembrano costituire il tramite più diretto per risalire alle origini stesse del divenire psicotico

Molti autori di scuola fenomenologica hanno prestato particolare attenzione al vissuto corporeo in psicopatologia, partendo dalla riflessione sul paradosso del corpo che si offre all’esperienza al tempo stesso come “soggetto” dell’esperire e “oggetto” dell’esperienza. Tale distinzione, mutuata dal pensiero di Husserl, si fonda sui concetti di Leib (inteso come corpo immediatamente vissuto, o “corpo che sono”) e Korper (inteso come corpo-oggetto, mediato dall’autoriflessione, o “corpo che ho”).

Ogni forma psicopatologica che investa tematicamente la corporeità sembra alla maggior parte di questi autori l’espressione di una autoriflessione esasperata, di un “crampo autoriflessivo” (Ladee, 1966), che sospinge il soggetto verso l’oggettivazione estraniante del corpo, inteso univocamente come corpo-Korper. Come osserva in modo radicale Hafner (1961), la regione corporea investita dal delirio si avvicina al modo di essere di un oggetto in quanto si trasforma in una “regione anonima ed estranea”, stralciata dalla totalità dell’esistenza e dell’esperienza vissuta. La riflessione di questo autore utilizza in modo drastico la dicotomia concettuale Leib e Korpe1; collocando risolutamente i deliri somatici nell’area autoriflessiva e devitalizzata del Korper. Una dicotomia così radicale sembra, a chi scrive, un artefatto concettuale che non rende appieno il significato della metamorfosi antropologica che subisce il corpo mentre avvengono trasformazioni di significato riguardanti il mondo.

Del resto, a proposito dei rischi che corre la fenomenologia del “pensare per dicotomie”, e quindi del vedere il corpo ridotto a oggetto deanimato, Binswanger (1946) scrive che “l’obiettivazione porta alla contrapposizione tra psichico e fisico; mentre noi vogliamo piuttosto ‘scavare un tunnel’ al di sotto di questa contrapposizione”.

Questo problema veniva già avvertito da chi scrive nel lontano 1965, in uno studio dedicato ai deliri somatici e al significato che riveste la corporeità per la fenomenologia (Gentili, Muscatello, Ballerini et al., 1965). In quel lavoro si tentava di stabilire un ponte fra coscienza dell ‘lo psichico, coscienza del corpo e coscienza dell’oggetto quali elementi di una correlazione fenomenologica indissolubile. L’analisi dei deliri a tema somatico proposta dagli autori prescindeva dalla classica contrapposizione Leib/Korper (considerata già allora un falso problema) e sottolineava piuttosto come le trasformazioni dell’esperienza del corpo nella schizofrenia fossero da considerarsi l’aspetto fenomenologico complementare di un’abnorme esperienza della totalità dell’Io.

IL LINGUAGGIO DEL CORPO NELLA SCHIZOFRENIA

Ci occuperemo del linguaggio del corpo e dei suoi travestimenti metaforici in quella situazione psicopatologica estrema rappresentata dalla psicosi schizofrenica. In alcune di queste condizioni psicopatologiche, in particolare nei deliri somatici cronici, questo linguaggio sembra avere perduto ogni risonanza vitale per diventare un vuoto, enigmatico linguaggio che ridefinisce il corpo all’interno di una bizzarra topografia fantastica, in cui alcuni organi possono completamente autonomizzarsi, altri assumere nuove funzioni, altri addirittura annullarsi. Le domande cruciali che la psicopatologia deve porsi sono le seguenti:

Esiste un vissuto somatico specifico dell’esperienza schizofrenica di cui lo stesso paziente ha perduto la chiave della sua comunicabilità?

E ancora: Può tale comunicabilità essere recuperata analizzando il linguaggio delirante del corpo attraverso una decifrazione attenta delle sue più arcaiche stratificazioni espressive?

E infine, sinteticamente: È l’enigmatica bizzarria di questo linguaggio che parla sul corpo una metafora per dire altro?

Per usare un’analogia geologica non si tratta soltanto di cogliere le caratteristiche che emergono nella situazione clinica finale, ma anche, soprattutto, di saper leggere la sequenza delle stratificazioni fenomeniche sottostanti!

Ciò vale per i deliri somatici e per l’ipocondria delirante come, del resto, per ogni altra condizione psicopatologica. Anche queste figure cliniche, apparentemente così impenetrabili, ci obbligano a confrontarci con una “visione del mondo” in progress, la cui espressività clinica conclamata non rappresenta che la ricapitolazione finale di un tragitto antropologico. Come scrive Tatossian (1981) a proposito dell’ipocondria: “[il corpo dell’ipocondriaco] è la sintesi di una biografia con tutte le delusioni che l’hanno segnata […]. Esso rappresenta il passato, ciò che è lontano, assente o scomparso […]. Con esso si esibisce, come una patetica reliquia, tutto ciò di cui l’ipocondriaco deplora la mancanza o l’imperfezione nel presente o nel passato”.

Un’analisi a ritroso delle tappe che sfociano in quella specifica “visione del mondo” rappresentata dai deliri somatici ci appare finora fallita, se pure è stata mai veramente tentata. Lo stesso Kuchenhoff (1985), pur latore di una riflessione fenomenologica fra le più avanzate, fonda tutta la singolarità del rapporto Io-mondo dell’ipocondriaco sul concetto di “perdita dell’ovvietà del vissuto di integrità somatica e psichica”, dizione estrapolata da una felice intuizione di Blankenburg (1971) che parla, a proposito delle esperienze schizofreniche iniziali, di “perdita dell’evidenza naturale” (Selbstverstandlichkeit). Egli, nel compiere un’operazione comunque imprescindibile, sembra ripiegarsi di fatto su una tautologia.

C’è allora da chiedersi se è possibile andare oltre, se è possibile considerare questa “perdita dell’ovvietà del vissuto di integrità somatica” in un contesto più ampio che ne consenta una ulteriore comprensibilità antropologica. Come dire: dobbiamo davvero prendere questo concetto come radicale ultimo della riflessione fenomenologica sui deliri somatici, e intendere questa esperienza psicopatologica come luogo di alienità irriducibile, precluso a ogni approccio ermeneutico antropologicamente fondato; oppure possiamo pensare questa condizione psicopatologica inscritta in un campo metaforico decifrabile, tale da consentirci lo spazio di un possibile ascolto, di una relazione pensabile?

Alla ricerca del modello di linguaggio che caratterizza la psicopatologia del vissuto somatico nella schizofrenia ho alla fine optato per il ritratto del mondo ipocondriaco offertoci da Duprè (1925), autore che si sofferma molto opportunamente sulla singolarità delle lussureggianti metafore del linguaggio ipocondriaco. In Pathologie de l’imagination et de l’emotivite così descrive gli ipocondriaci:

I malati lamentano di provare in differenti parti del corpo delle sensazioni abnormi a carattere più penoso e molesto che doloroso […]. Si tratta di sensazioni bizzarre, per lo più indefinite e descritte dai malati con un gran lusso di immagini e di paragoni […]. Queste parti del corpo sono rimpicciolite, ingrandite, appiattite, gonfiate, rinsecchite, raggrinzite, spostate, modificate nella loro forma, nella loro temperatura, nel loro peso. nella loro formazione di secreti, nella loro mobilità o nella loro fìssità. Sono attraversate da crampi; da attacchi; da applicazione di cose, e ancora, sono compresse da tenaglie ecc. Corpi estranei si interpongono, gas si insinuano, correnti circolano, ribollimenti gorgogliano, scricchiolii e crepitazioni scrosciano ecc. Avvertono strette, battiti; tiramenti; dislocazioni. A queste sensazioni penose si aggiungono altri malesseri di natura ancora più vaga, e che i malati designano con il termine di paralisi, di congestione, di anemia, di morte, di putrefazione, di carie ecc. Per rendere conto della sede e della natura delle loro sensazioni i malati manifestano una mimica dove dominano l’espressione tormentata e contratta del volto e la ripetizione degli atteggiamenti e dei gesti. (ll corsivo è mio)

Questo linguaggio, per le sue coloriture lussureggianti e bizzarre, connesse con le immagini della corruzione, della tortura, del fuoco e della morte, coglie l’ essenza psicopatologica di tutti i linguaggi che delirano sul corpo. Esso evidenzia un mondo di significati che vanno ben oltre il corpo come significante condiviso per inoltrarsi nel mondo delle esperienze antropologiche più angosciosamente vitali e radicali: quelle estreme di alienazione e di scacco che coinvolgono l’intero universo cosmo-biologico, proprie della psicosi.

PSICOSI E SIMBOLICA DEL MALE

Ciò che appare fenomenologicamente più rilevante nell’esperienza schizofrenica è lo sfaldarsi, il dissolversi graduale o cataclismatico del senso dell’identità psicofìsica. Una simile esperienza dissolutiva tocca necessariamente anche il vissuto somatico, così intimamente connesso con la struttura dell’Io psichico da costituire il pilastro portante dell’esperienza quotidiana dell’identità. Accanto ai fenomeni che denunciano la disgregazione dell’identità psichica si associano quindi massicci fenomeni di de- personalizzazione a carico dell’identità somatica. Sensazioni ineffabili di estraneamento, di artifìciosità, di influenzamento del corpo sottolineano e accentuano la perdita della padronanza e dei limiti di quello “spazio intra- psichico” di cui il vissuto corporeo fa parte integrante.

Dissoluzione dunque dell’identità, che trova nella patologia del vissuto corporeo una conferma ancora più diretta e impressionante, soprattutto quando constatiamo che a questi temi di influenzamento e di spossessamento del corpo si accompagnano peculiari vissuti di metamorfosi e di degradazione somatica e fìsiognomica che implicano sempre un sostrato di indegnità e di vergogna. Va ricordata qui l’ampia gamma delle esperienze di depersonalizzazione somatopsichica con i suoi tipici vissuti dismorfofobici, il cui corrispettivo comportamentale, un coatto interrogarsi allo specchio (“segno dello specchio”), era considerato già dai vecchi clinici un segno precoce di schizofrenia (Delmas, 1929; Abley, 1930). In tale contesto va sottolineato come le dismorfofobie siano state definite da Jahrreis (1930) forme di “ipocondria estetica”.

L’identità si altera non solo perché la permeabilizzazione delle barriere dell’Io sottrae al soggetto il senso di proprietà e di appartenenza dei propri pensieri e del proprio corpo, ma anche perché, nel contesto angoscioso della destrutturazione, il soggetto subisce un processo di deterioramento e di deformazione della propria esperienza fisiognomica e somatica, processo che può culminare nell’esperienza di dissoluzione della propria forma umana. Vanno ricordati qui i temi ricorrenti di perdita dell’identità sessuale, di possessione demoniaca o di trasformazione verso forme subumane di esistenza.

Ma tutto ciò che è stato descritto non coglie ancora esaurientemente lo spessore e la specificità del mondo del paziente, la sua densità e globalità “ontologica”. Va soprattutto sottolineata la metamorfosi negativa che subisce il mondo sotto il segno della psicosi: esso si esprime attraverso una gamma di significati negativi e carichi di minaccia che coinvolgono sia il mondo degli oggetti, sia quello della propria personale esistenza, vissuti sotto il segno dell’insicurezza, della minaccia, del disfacimento, della morte, della contaminazione fisica e morale, della trasformazione del corpo verso modalità dismorfiche e ripugnanti di esistenza. Vissuti accomunati tutti da una costante che chiamerei “naufragio ontologico del valore”, per indicare il rimaneggiamento radicale, il rovesciamento che subiscono i parametri assiologici della persona. Di qui i grandi temi metafisici che emergono spesso all’inizio delle psicosi, in cui le metafore del “male”, a volte impersonate dalla stessa figura del diavolo, dominano incontrastate.

Come scrive von Gebsattel (1938), “il paziente parla solo su contenuti che simboleggiano perdita o pericolo. Le potenze amiche e favorevoli dell’esistenza scompaiono per fare posto a quelle nemiche ed ostili. Non esiste più nulla di innocuo, di naturale e di comprensibile. Il mondo si raggrinzisce in una fisionomia ripugnante”. Von Gebsattel parla di perdita dell’ eidos (della forma) e dell’incombere dell’ antieidos (dell’informe), simboleggiato dai temi dell’impurità, della contaminazione, del deterioramento, della corruzione fisica e morale. Una “forza equivoca” è insita in questa minaccia poiché essa si volge a due istanze diverse: la corporeità e la coscienza morale. “Essa è come sospesa fra il mondo naturale e il mondo morale. ”

“Si tratta di una vera e propria crisi ontologica dell’Io, di una crisi antropologica radicale che annienta l’intera persona come centro di possibilità, ‘presenza’ progettante e valorizzante, polo di decisione e di scelta dei propri atti e delle proprie motivazioni” (Muscatello, 1979). Questo rischio di smarrire la propria persona, come affermazione individuale e storica, “nell’immenso e incontrollabile dominio del negativo” (De Martino, 1962) viene vissuto dal soggetto come perdita della vitale concretezza dell ‘ esistenza, come vuoto, artificiosità, inganno e, allo stesso tempo, come caduta nel disvalore assoluto, che si esprime attraverso indicibili esperienze di sfacelo fisico e di degradazione morale.

Il malessere che colpisce 1 ‘lo nel momento della sua dissoluzione rappresenta “il male” per antonomasia, la corruzione fisica, l’impurità, la colpa indecifrabile, il peccato originale, la maledizione. Kierkegaard ha bene espresso questa implicita ambiguità dell’angoscia destrutturativa quando ha scritto: “[…] e resta il tormento più grande quando un uomo non sa se la propria sofferenza sia una malattia o un peccato ” ( cit. in Jaspers, 1913) .

“Nella perdita di tutti i parametri di riferimento, in un mondo che è diventato irriconoscibile e pullulante di riferimenti magici, l’angoscia destrutturativa si situa fra l’esperienza corporea (il mal-essere, la malattia) quella morale (l’impurità e la colpa) e quella magica (la persecuzione magica, il maleficio)” (Muscatello, 1979).

L’ esperienza ipocondriaca, nella fase cataclismatica della psicosi, si colloca in un certo punto di intersezione che è il crocicchio di questi tre registri dell’esperienza umana del “male” e della sua simbolica. È qui che il tragitto della psicosi schizofrenica si incrocia con lo specifico antropologico dell’ipocondria. Il caso Schreber (1903) ce ne dà una pregnante testimonianza.

VISSUTO DI IMPURITA’ E TEMATICHE IPOCONDRIACHE NELLA PSICOSI: IL “CASO SCHREBER”

Molti degli aspetti fenomenologicamente rilevanti della psicosi schizofrenica li ritroviamo in un protocollo celebre, consistente in un lungo e minuzioso resoconto autobiografico degli eventi “miracolosi” (leggi minacciosi e sovrannaturali) vissuti da Daniel Paul Schreber, giudice della Corte d’appello di Dresda, nel corso della psicosi schizofrenica che lo colpì nel 1893, a 53 anni. Durante i ripetuti ricoveri, resi necessari dalle sue condizioni psichiche, egli redasse un lungo memoriale che fece pubblicare nel 1903. La fase più acuta dell’angoscia destrutturativa ci sfugge. Sappiamo solo che Schreber ebbe a soffrire, alcuni anni prima dell’esordio schizofrenico, di un altro episodio psichiatrico, etichettato come “melanconia ipocondriaca”, e che nei mesi precedenti l’esordio era stato sottoposto a condizioni di intenso stress psichico accompagnato da una perdurante insonnia. Ma tutti questi particolari appaiono irrilevanti e quasi risibili se rapportati agli avvenimenti “sovrannaturali” vissuti da Schreber e da lui descritti con minuziosa, ossessiva precisione. Sappiamo solo che un misterioso accadimento ha distrutto “l’Ordine del Mondo” e “i Reami di Dio”. Qualcuno ha commesso “un assassinio dell’anima”. Schreber non sa chi l’ha commesso, forse il professor Flechsig (il suo medico curante), forse lui stesso, forse Dio. Il tema della colpa s’intreccia fin dall’inizio col tema della persecuzione magica, perché veniamo anche a sapere che l’assassinio dell’anima equivale, per Schreber, a un furto dell’anima misteriosamente subito. Potremmo anche dire che chi subisce il furto dell’anima è responsabile in prima persona di una gravissima colpa, quella che Schreber chiama ” assassinio dell ‘ anima ” . Appare qui evidente una vertiginosa ambiguità, un paradosso esistenziale: quello di convivere con un “male” che si colloca nello stesso tempo all’interno e al di fuori del soggetto, un male interiore che fa sentire il sog- getto consenziente e colpevole e che, nello stesso tempo, egli subisce come una maledizione, da vittima designata, ma incolpevole. A Schreber qualcuno ha dunque rubato l’anima, ma non solo l’anima: lo stanno anche privando della sua identità maschile. Questa trasformazione dell’identità somatica consiste in un lento processo di “evirazione”, per “retrazione” e “rammollimento fino ad una completa dissoluzione”, dello scroto e del pene. Ciò è vissuto da Schreber come “il massimo dell’ignominia” e come gravissimo affronto al suo onore virile.

Questo tema si modula fin dall’inizio secondo una plurivocità di vissuti, tutti estremamente angosciosi e negativi. Infatti nell ‘ esprimere un momento centrale della dissoluzione della sua identità personale e sessuale, il tema dell’evirazione viene vissuto da Schreber come perdita di valore, impurità e corruzione morale, intrecciandosi contestualmente con più ampie e diffuse tematiche ipocondriache di disgregazione fisica (distruzione di organi, trasformazioni somatiche ripugnanti dovute a misteriosi contagi e malattie). Raggi malefici (“raggi impuri”) scaricano sul corpo e sull’anima di Schreber sostanze putrefattive e contagiose, impregnate di “veleno cadaverico” e ciò chiarisce all’autore le mortificanti e ripugnanti trasformazioni che subisce, per un certo periodo della sua vita, il suo corpo. A queste trasformazioni è dedicato un intero capitolo del suo libro.

Le vicissitudini somatiche subite da Schreber si contraddistinguono tutte per il loro carattere contagioso e deturpante (peste, lebbra) e perché connesse a un sostrato di impurità e di indegnità morale (sifilide).

A favore del fatto che in me dovessero essere presenti certi germi di lebbra, parla la circostanza che io per un certo tempo fui indotto a pronunciare certe formule di scongiuro di tipo piuttosto singolare, come: “io sono il primo cadavere lebbroso e conduco un cadavere lebbroso” […]. Per contro ho avuto manifestazioni della malattia peste sul mio corpo a più riprese e in forma abbastanza forte. {Schreber, 1903 )

Il tema ipocondriaco sembra, a tratti, prevalere nettamente, sempre connesso strettamente ad aspetti dissolutivi dell’identità somatopsichica e a vissuti di impurità. Il corpo di Schreber subisce altre vicissitudini umilianti, dolorose ed enigmatiche: rimpicciolimento delle ossa, scomparsa di alcuni organi, erosioni, “putrefazioni del basso ventre”, accompagnate da penose allucinazioni olfattive {odori putrefattivi):

In questo quadro rientrava in particolare ogni genere di mutamenti nelle mie parti sessuali, che certe volte (specialmente a letto) si manifestavano come notevoli passi verso un’effettiva retrazione del membro virile, ma spesso, quando vi partecipavano in modo preponderante raggi impuri, come un suo rammollimento che si avvicinava quasi ad una completa dissoluzione […]. Degli altri organi interni voglio ancora ricordare soltanto l’esofago e gli intestini, i quali furono ripetutamente lacerati o scomparvero, il cordone spermatico, ai danni del quale furono operati miracoli abbastanza dolorosi […]. Oltre a ciò debbo ancora far menzione di un altro miracolo che investiva tutto il basso ventre, la cosiddetta putrefazione del basso ventre. […] più di una volta ho creduto di dovere imputridire da vivo e l’odore della putrefazione emanava dalla mia bocca nel modo più nauseante. (ibi- dem)

li tema ipocondriaco, fin dall’inizio strettamente connesso con quello dell’impurità, sta a segnalare come lo stato di impurità fisica coincidente con quello di degradanti malattie di cui parla Schreber, è da considerare alla stregua di uno stato allotropico dell’impurità morale. Egli si sofferma con particolare insistenza sul tema dell’impurità, un’impurità, non a caso, dei “nervi”, sottolineandoci ancora la commistione inestricabile fra ipocondria, impurezza fisica e impurità morale. Egli scrive:

Si cercò infine di annerire i miei nervi, facendo trapassare in modo miracoloso i nervi anneriti di altri uomini, probabilmente supponendo che la nerezza (impurità) di questi nervi si sarebbe comunicata ai miei propri. […] I nervi umani moralmente corrotti sono anneriti; uomini moralmente puri hanno nervi bianchi; quanto più in alto un uomo si sarà trovato in vita dal punto di vista morale, tanto più la costituzione dei suoi nervi si avvicinerà alla bianchezza o alla purezza perfetta, che è propria dei nervi di Dio fin dal!’ inizio. […] È da escludere che ciò possa avvenire senza una purificazione preliminare, perché difficilmente si potrà trovare un uomo che sia esente da colpa, i cui nervi dunque non siano stati sporcati una qualche volta. (ibidem, il corsivo è mio)

A conclusione di questo singolare protocollo, che denuncia il naufragio psicotico in un universo antropo-cosmico al “negativo”, in un mondo che potremmo definire del disvalore ontologico, possiamo sottoscrivere le parole di Bachelard (1942): “La purezza è una delle categorie fondamentali della valorizzazione, tanto che si potrebbero simboleggiare tutti i valori per mezzo della purezza ” .

LINGUAGGIO DEL CORPO E SIMBOLI PRIMARI DEL “MALE”

Il vissuto di impurità che domina il delirio somatico di Schreber suggerisce una chiave di lettura per entrare nel problema del mal-essere dell’uomo che si confronta con esperienze-Iimite. Le esperienze citate nell’autobiografia di Schreber, pur nella loro ermetica chiusura a ogni possibile condivisione, inducono a pensare che i deliri a tema somatico parlino, per enigma e per simboli, di un’arcaica esperienza del “male” che nella psicosi, esperienza critica estrema dell’uomo, dispiega l’intero repertorio delle sue metafore primarie: contagio fisico, infezione, impurità, indegnità, peccato, maleficio magico, maledizione divina, possessione demoniaca.

Nell’orizzonte di questa crisi, che l’antropologo Ernesto De Martino (1977) definisce “crisi della presenza”, intesa nell’accezione di “apocalisse psicopatologica”, la soggettività si scopre smarrita, menomata, “legata”, contagiata da un male indecifrabile. Mal-essere e mal-fare si fondono in un’esperienza che è quella di una perplessità senza sbocco.

Nelle parole di un salmo penitenziale babilonese ritroviamo l’esperienza di questa angoscia senza nome che si interroga sul significato del “male”. Implora il supplicante di Babilonia:

Possa il male che è nel mio corpo, nei miei muscoli e nei miei tendini andarsene oggi.

Scioglimi dal mio incanto… perché un cattivo incanto e una malattia impura, e la trasgressione, e l’iniquità e il peccato

sono nel mio corpo,

e uno spettro malvagio mi si è attaccato.

Nelle parole dell’orante si dispiega tutta la gamma delle metafore obbligate del “male”, connesse con l’esperienza umana dell’angoscia e dello scacco, nelle quali l’ordine cosmo-biologico del mal-essere (infelicità, malattia, morte, scacco) si confonde con quello magico-religioso del mal-fare, attraversando i temi dell’infezione, dell’impurità, della trasgressione colpevole, del peccato, del maleficio magico, della possessione. I temi somatici iniziali del contagio fisico, dell’infezione e dell’impurità (“una malattia impura”) si colorano nel corso della preghiera di valenze etiche, sconfinano in un sentimento di indegnità per culminare in una fantasia persecutoria di possessione (“e uno spettro maligno mi si è attaccato”).

Soffermandoci ancora sul testo di questa antica preghiera, individuiamo altri aspetti significativi. Vediamo come il male sia avvertito profondamente radicato nel corpo: “il male che è nel mio corpo, nei miei muscoli, nei miei tendini…” è il primo lamento dell’orante. Esso è “malattia impura”, infezione di impurità. L’etica si mescola alla fisica del soffrire, mentre la sofferenza si va sovraccaricando di significazioni etiche. Questo male trova poi una ulteriore declinazione nel “cattivo incanto”, espressione di una intenzionalità malvagia esterna che allude già a una larvata esperienza persecutoria. Nella perdita di tutti i parametri di riferimento, in un mondo che è diventato indecifrabile, l’angoscia dell’orante babilonese appare assai simile all’angoscia destrutturativa nella fase della perplessità delirante. Come già abbiamo osservato, essa si situa fra il mondo naturale (il mal- essere, la malattia), il mondo morale (il malfare, l’impurità, la colpa) e quello magico (la persecuzione magica, il maleficio) .

Ciò che rende la preghiera babilonese straordinariamente significativa è il fatto che le sue parole conservano le tracce di antiche stratificazioni espressive in cui un arcaico linguaggio dell’angoscia si interroga sul “male”. Esso affonda le sue radici nella corporeità e appare chiaro che di questa non può parlare se non attraverso il linguaggio figurato e allusivo dell’infezione, della contaminazione, de1l’impurità.

Fin dall’origine dunque il linguaggio che parla del corpo è linguaggio simbolico. Occorrerà partire da questo, lasciarsene istruire, per giungere a sprigionarne tutti i reconditi indizi e rimandi comunicativi. Come dice Ricoeur, “il simbolo dà a pensare”.

Da quanto è stato detto, e anche a commento dell’aforisma di Ricoeur sul simbolo che “dà a pensare”, mi sembra si debba inquadrare il problema dei deliri somatici nella schizofrenia nell’ambito di quelle stratificazioni del linguaggio attraverso le quali, da sempre, il corpo è pervenuto alle sue possibilità di rappresentarsi: un linguaggio figurato e duplice perché doppio è il suo registro semantico, sospeso fra mondo fisico e mondo della valorizzazione etica. Ogni menomazione ontologica subita dalla persona si declinerà secondo questo doppio registro in cui corruzione, deterioramento, impurità fisica corrispondono a una corruzione invisibile, una corruzione di specie morale, appartenente alla serie della trasgressione, vergogna, indegnità, colpa, peccato. L’impurità, per la sua doppia connotazione semantica, tuttora viva nel linguaggio quotidiano, sembra rappresentare la metafora privilegiata capace di stabilire un ponte fra i due mondi.

La “perdita dell’ovvietà naturale del vissuto somatico”, fino alle sue più cifrate espressioni psicotiche, può essere colta appieno nella sua specifìcità antropologica solo se saremo in grado di leggere il trasfigurato linguaggio che delira sul corpo (legato, paralizzato, corroso, contagiato, infetlo, corrotto, combusto) attraverso la comprensione delle più arcaiche metafore del “male” da questo sottese. Esse sono infatti fra le metafore più significative attraverso cui l’uomo comunica le sue più radicali esperienze di alienazione e di scacco.

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