Psicoterapia di Comunità
Pubblicato da redazione
Fonte: “Psicoterapia di Comunità. Clinica della partecipazione e politiche di Salute mentale” Edizioni FrancoAngeli, 2010 Raffaele Barone, Vincenzo Bellia, Simone Bruschetta
Questo volume tocca argomenti non proprio nuovissimi: la psichiatria territoriale, il lavoro di rete, la psicoterapia nei servizi e altrove, la residenzialità psichiatrica, l’inclusione sociale, il reinserimento occupazionale, la riabilitazione e via dicendo. È pur vero che sono questioni assai rilevanti dal punto di vista delle pratiche clinico-assistenziali: un altro libro che se ne occupi, perciò, forse non è del tutto fuori luogo, a condizione che il testo sia supportato da un dignitoso retroterra teorico e che sia sottoposto a una convincente operazione di lifting. Male che vada, finirà in mano a qualche centinaio di studenti, a qualche dozzina di colleghi e, per un paio d’anni, farà capolino sulle bibliografie di altri libri consimili.
Questo libro ha impostazione teorico-pratica, perciò nelle pagine che seguono parleremo di una serie di cose e discuteremo di alcune idee. C’è da fare un’osservazione preliminare, però: ci ha sempre colpito il fatto che il pensiero psicologico-clinico, pur in continua evoluzione, abbia prodotto una trasformazione solo trascurabile delle tradizionali pratiche psichiatriche, pur sottoposte a un continuo e severo vaglio critico. Parallelamente, le esperienze innovative realizzate in questi anni nell’arcipelago della salute mentale non sembrano aver innescato un significativo cambiamento delle teorie di riferimento, talché il discorso psichiatrico mantiene sostanzialmente l’intelaiatura dei modelli psicologico-clinici tradizionali.
È bizzarro: le esperienze di innovazione non intaccano in modo significativo lo “psichiatria-pensiero”, esaurendosi troppo spesso in lodevoli, brillanti ma effimere iniziative, eccezioni nella routine clinicoassistenziale,
invece che costituire il presupposto di nuove regole e procedure e i cardini di un rinnovato patrimonio metodologico.
Frattanto, le università continuano a dispensare psicoanalisi e cognitivismo, i corsi ECM riciclano neuroscienze e psicoeducazione, le comunità “terapeutiche” (?!) amministrano un bilancio che registra eternamente in entrata rette pro-capite e in uscita attività di intrattenimento.
I dipartimenti di salute mentale, invece, a ranghi ridotti, con pochi alleati e qualche nemico, continuano una sorta di “guerra di posizione”, occupandosi molto di matti e poco di persone, non tantissimo di pazienti e ancor meno di famiglie, quasi per nulla della comunità allargata e del “territorio”, un lusso degli anni ottantanovanta.
Troppi interessi politico-economici, troppo blindate ideologie para-scientifiche, troppo radicate eredità culturali, troppi timori di minaccia all’identità professionale, troppa soggezione degli operatori di base… C’è un “troppo” che pesa sulla chance di rinnovare i percorsi e le metodologie della psichiatria e della salute mentale.
Perché l’evoluzione del pensiero terapeutico possa efficacemente incidere sulle prassi, occorre che esso sia strettamente immanente a una nuova percorribile progettualità, alle organizzazioni socio-sanitarie e alle politiche di sviluppo dei territori. Perché le nuove prassi possano innescare processi trasformativi, è necessario che esse si inseriscano nella concertazione delle politiche territoriali e siano sostenute da una solida consapevolezza teorica. Perché le politiche assistenziali rispondano adeguatamente ai bisogni, esse devono valorizzare le prassi innovative e gli sviluppi della cultura clinica.
Con questo volume ci proponiamo allora di:
•presentare e commentare criticamente alcune esperienze che riteniamo innovative, nella misura in cui inaugurano piste di lavoro non assimilabili alla consuetudine delle pratiche nel settore;
•illustrare alcune delle tracce modellistiche sottese a queste esperienze, pur senza voler attribuire loro valore paradigmatico;
•prospettare una visione delle politiche socio-sanitarie fondata sulla partecipazione diffusa, sul binomio cultura-cura, sulla promozione di reti sociali, sulla comunità come fondamentale protagonista (destinatario, soggetto e risorsa) dei processi terapeutici.
1. Parola d’ordine: partecipazione
Mentre il volume era in cantiere, il suo titolo provvisorio era «L’arte di far parte», a propugnare una concezione della cura relazionale radicalmente fondata sulla dimensione partecipativa. Un’altra ipotesi ventilata per il titolo era «(Ri)cucire le reti». Pensiamo il lavoro di cura in stretto rapporto con le comunità e i territori (concreti e mentali) di appartenenza dei soggetti coinvolti: curati, curanti, familiari, vicini e semplici curiosi.
Riteniamo la clinica indissociabile dalla dimensione politica, non certo nel senso che essa debba svolgersi nelle nicchie assegnatele dalla politica. Rivendichiamo nei servizi pubblici la dimensione privata della soggettivazione e del servizio alla persona, ma a maggior ragione consideriamo velleitario un lavoro di curache persino nello studio privato non sia concepito come una funzione pubblica. A fronte delle diffuse logiche di esclusione (o, talora, di auto-esclusione), optiamo per una strategia di inclusione sociale.
Questo libro non è politically correct: è intenzionalmente un libro di parte, nel quale si sostiene la necessità clinica di dar voce a tutte le parti sociali a diverso titolo implicate. Alcune parti, i pazienti per esempio, non sempre rispettano la correttezza formale. Chi, dall’altra parte, si assume il compito di correggere, esercita un potere; come metodologia di esercizio del potere, però, preferiamo la partecipazione. Determinati perciò a mantenerci nella scorrettezza, la sola “correzione” che accettiamo di buon grado,
oltre alla correzione delle bozze, è quella che proviene dal confronto. Nei gruppi, quelli di cui si parla nei capitoli di questo volume e tanti altri di cui qui non si parla; nei gruppi multiprofessionali e nei gruppi di covisione; nei grandi gruppi dei seminari romani del 2007 su «Percorsi di ricerca, promozione e tutela della salute mentale», ai quali il ministero della Salute del passato governo ha affidato il compito di elaborare le “Linee di indirizzo nazionali sulla salute mentale in Italia” (2008).
Riportiamo integralmente in appendice il testo delle Linee di Indirizzo, cornice culturale e normativa delle argomentazioni clinico-sociali contenute nel volume, sperando di contribuire a che non rimangano lettera morta, considerate le recenti avances controriformistiche. Le Linee di indirizzo affrontano tutte le questioni-chiave della psichiatria con una metodologia basata sulla partecipazione: hanno visto la luce, infatti, a conclusione di un ampio e approfondito dibattito che ha coinvolto centinaia di professionisti, esperti, operatori clinico-sociali, utenti, familiari e amministratori locali.
Con un pensiero comunitario e molteplice, dunque, vogliamo articolarci; collocarci in un processo compartecipato di costruzione di un sapere nuovo e dinamico. Per il resto, invece, non cercheremo mediazioni ed equidistanze; proveremo anzi a radicalizzare alcune posizioni, su più piani: l’epistemologia, la teoria della prassi, l’orientamento delle politiche socio-sanitarie.
2. Psicoterapia di comunità?
Non è un passaggio scontato. Psicologia o psichiatria di comunità passi, ma psicoterapia no! È un’allocuzione che fa il solletico allo spazio più intimistico e privatizzato dopo il confessionale, ma anche ad uno degli albi professionali più gelosamente custoditi del pianeta. Eppure la psicoterapia si colloca in un’area disciplinare e culturale intermedia: le sue matrici sono da ricondurre alla scienza medica da una parte, alle scienze umane dall’altra. Disciplina clinica relativamente giovane, ha sviluppato il proprio corpus nell’arco dell’ultimo secolo, in un periodo storico caratterizzato da trasformazioni profonde e di rapidità inedita, sul piano culturale, sociale, scientifico, tecnologico, economico, politico, intellettuale, antropologico…
La psicoterapia è nata ed ha mosso i suoi primi passi in un “certo mondo”; adesso che la disciplina sembrerebbe aver consolidato il suo patrimonio teorico, il suo strumentario metodologico e i suoi statuti, però, quel mondo non esiste più come tale, e gli psicoterapeuti si trovano a confrontarsi con problematiche, utenti, referenti sociali e istituzionali di un mondo che si è radicalmente trasformato. Vediamo di essere più chiari.
La configurazione della psicoterapia come disciplina clinica poggia su una serie di caratteristiche ampiamente mutuate dal suo contesto socio-culturale originario. Innanzitutto, nel suo background scientifico vediamo soprattutto una medicina psichiatrica dai riferimenti somatici e neurologici piuttosto deboli, un pensiero filosofico dominato dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo e una psicologia, a sua volta nascente, contesa tra un’anima sperimentalista di ispirazione comportamentista e una psicodinamica sovente tacciata di dubbia scientificità.
Le problematiche cliniche con cui per molto tempo la psicoterapia si è confrontata sono state in prevalenza turbe nevrotiche o caratterologiche che incidevano in modo disturbante sulla sfera affettivo emozionale di personalità per il resto sufficientemente coese e adattate. I suoi utenti e/o i suoi committenti provenivano da fasce della società con una collocazione sociologica medio-alto borghese, un grado di istruzione anch’esso medio-alto, una condizione economica per lo più abbiente.
Le teorie e le tecniche psicoterapiche, inoltre, sono state concepite e sviluppate in un contesto relazionale uno-a-uno, mutuandone di fatto una fondamentale opzione individualistica e diadica; in rapporto alle caratteristiche dei suoi pazienti e alla sua dimensione privatistica, la psicoterapia si è sviluppata come forma di trattamento uni-modale, poco incline e talora francamente ostile alle integrazioni.
Accanto e in contrapposizione a una medicina fortemente orientata al polo somatico, all’oggettività e all’interventismo chirurgico e farmacologico, la psicoterapia si è costruita invece intorno al polo psichico della
parola e della coscienza soggettiva, privilegiando spesso un approccio non direttivo. Infine, lo sviluppo della psicoterapia è avvenuto in un contesto culturale relativamente chiuso e stabile, in una “nicchia sociologica” della
civiltà occidentale poco permeata da una dinamica di scambio con culture sociali e terapeutiche altre. Nell’arco dell’ultimo mezzo secolo, però, le profonde trasformazioni che hanno scosso dalle fondamenta la nostra civiltà hanno posto inedite sfide anche agli psicoterapeuti. Vediamo di essere più precisi.
La ricerca scientifica ha prodotto acquisizioni nel campo delle neuroscienze che non è certo possibile ignorare; il pensiero filosofico propone una critica epistemologica alla quale la psicoterapia non può sottrarsi; la sociologia e l’antropologia contemporanee non le consentono più di pensarsi in una autoreferenziale cornice psicodinamica o pseudo-sperimentalistica.
I processi patomorfici che hanno accompagnato le trasformazioni sociali hanno posto a confronto con nuove sfide cliniche: le grandi psicosi innanzitutto, ma anche i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze patologiche, i nuovi disturbi di personalità con le loro implicazioni sul piano dell’adattamento sociale…
Le competenze psicoterapeutiche, inoltre, sono sempre più spesso richieste per interventi che non sono clinici in senso stretto, ma che si muovono nell’orizzonte della prevenzione, della formazione, dell’intermediazione
sociale. Destinatari e committenti degli interventi psicoterapeutici provengono sempre più dalle
classi popolari, dai ceti meno abbienti, da fasce della popolazione poco (o diversamente) acculturate,
portando sulla scena con inedita immediatezza e con imprevedibili declinazioni culturali la dimensione del bisogno.
A partire dall’ultimo dopoguerra e parallelamente alla crescita della domanda sociale, la psicoterapia ha cominciato su larga scala ad operare in contesti di gruppo: guarda al sociale come fondamentale dimensione dell’esperienza soggettiva, opera con i gruppi nel sociale, riconcepisce la soggettività in una cornice intersoggettiva, è diffusamente richiesta e praticata in ambito istituzionale e affianca interventi di altro tipo, nella cornice di programmi multimodali. In generale, i confini della psicoterapia non sono più le pareti dello studio professionale, ma i territori e le comunità di appartenenza dei pazienti e dei curanti.
La parola e la consapevolezza non esauriscono più l’orizzonte dell’intervento e del cambiamento: le nuove tipologie di utenti e il dialogo interdisciplinare hanno introdotto nel campo psicoterapeutico un crescente protagonismo della corporeità e dei suoi linguaggi. La psicoterapia orientata in senso espressivo valorizza nuovamente: a) il ruolo del sensomotorio nei processi di costruzione del simbolico, b) il ricorso alle tecniche attive.
In una società solcata dai flussi migratori, terreno di coltura di culture metropolitane e localistiche, investita e attraversata dall’onda mediatica della globalizzazione, la psicoterapia (ogni psicoterapia) deve ridefinirsi come laboratorio interculturale. Il discorso sull’identità, sempre più lontano dai vecchi e insufficienti modelli universalistici, si ripropone sul terreno di una pluralità di concezioni del sé, dell’esistenza, delle relazioni, della psicopatologia e della cura. La psicoterapia abita ormai lo spazio del molteplice.
Al di là del progressivo adattamento delle scuole tradizionali ai mutamenti della domanda e dei contesti operativi, in questi anni ha preso forma anche un filone teorico e metodologico specificamente orientato a operare nell’interconnessione e nella complessità, in formati multipersonali e in programmi multimodali, con i gruppi vitali e nelle reti sociali, con la grave psicopatologia, nella dimensione transculturale. In questa ricerca abbiamo trovato di particolare rilievo l’apporto del sapere gruppoanalitico. Per questo parliamo ormai di psicoterapia di comunità anche con un’ambizione modellistica.
Ma c’è di più. Nelle pagine che seguono ci occuperemo di pratiche di salute mentale che a prima vista appaiono al di fuori dell’orizzonte psicoterapeutico. È proprio in queste pratiche però, affermiamo, che risiede la radicale innovazione che chiamiamo “psicoterapia di comunità”.
3. Invito alla lettura
L’apertura del volume è dedicata proprio al modello della “comunità che cura”, con le sue articolazioni, i nuclei teorici che lo supportano, la ridefinzione del ruolo e dell’identità professionale dell’operatore clinico.
Il percorso prosegue con la rivisitazione di alcune originarie elaborazioni del pensiero gruppoanalitico, che risultano di un’attualità e di una fruibilità operativa sorprendenti, nella prospettiva di una psicoterapia di comunità, di cui S.H. Foulkes è stato sicuramente uno degli anticipatori.
Il terzo e il quarto capitolo sono una sortita in ambito psicopatologico-clinico, nei territori del grave disagio e nell’universo adolescenziale, che ne rappresenta sovente il prologo. Una riflessione sulla valenza transculturale della psicoterapia prelude alla presentazione di un modello teorico e operativo che apre uno spaccato sulle matrici culturali sottese all’intervento clinico. Esso studia, in particolare, il rapporto individuogruppo
e gruppo-contesto, in riferimento alle categorie di appartenenza, partecipazione e separazione. Se ilpensiero psicoanalitico ha illuminato le profondità delle dinamiche separative, se l’antropologia e l agruppoanalisi hanno mostrato le implicazioni della dimensione dell’appartenenza, una psicoterapia di comunità non può che raccogliere queste preziose eredità in una “clinica della partecipazione” che ne rilanci il potenziale di soggettivazione fino alla dimensione politica.
I successivi quattro capitoli vedono la psicoterapia di comunità “in azione” in diversi contesti operativi,presentando pratiche innovative di salute mentale: in ambito residenziale, nel sostegno all’abitare autonomo,nei percorsi di inclusione socio-lavorativa, nel lavoro di strada. Il volume si conclude con la presentazione di uno strumentario indirizzato alla progettazione clinicosociale,nell’ottica della concertazione comunitaria. Nella prima, corposa appendice la narrazione di un’ampia serie di esperienze esemplifica i percorsi delineati nella prima parte del volume e, ci auguriamo,suggerisce spunti per attivare o rimodulare prassi di cura nelle diverse comunità locali
.Post scriptum: nelle ultime due appendici riportiamo il testo integrale delle Linee di indirizzo nazionalisulla salute mentale in Italia (2008), ampi stralci del Libro verde dell’Unione Europea e la Carta di Matera,il recentissimo manifesto programmatico dell’AIRSAM: documenti che invitano a quella pratica della salutementale che vorremmo vedere e compartecipare più spesso.Buona lettura!
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