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Note introduttive ai DCA

Fonte : “Note introduttive ai DCA” di Mario Mulè

Per descrivere i disturbi dell’alimentazione è stata utilizzata la metafora del quadrivio, di un luogo in cui convergono strade e direzioni diverse.

In effetti in questi disturbi tanti aspetti della condizione umana si ritrovano coinvolti: c’è il corpo, con la sua fisiologia e la sua fisiopatologia; c’è la mente e la psicopatologia. Incontriamo spesso l’adolescenza, a sua volta momento di snodo tra infanzia e vita adulta.

E c’è ancora molto altro: la presenza di questi disturbi nel nostro mondo c.d. occidentale e la loro assenza in altre regioni del pianeta chiama in causa le culture di appartenenza, e con esse altre scienze umane quali l’antropologia, l’economia, l’etnopsichiatria. Ed ancora, la netta prevalenza nel genere femminile ci interroga sul ruolo della donna e sulla sua evoluzione in questi ultimi decenni.

E poi, soprattutto, vi sono le storie, tante storie a volte raccontate, più spesso tenacemente nascoste dentro una sintomatologia saturante e pervasiva.

A guardare bene, più che un incrocio sembra un groviglio, che certamente non è facile “ sgrovigliare”.

Si può provare tuttavia a seguire alcuni fili, nel tentativo di dipanare in qualche misura la matassa.

Cominciamo con il corpo.

Alcuni decenni addietro i medici nutrizionisti americani si trovarono di fronte ad un problema al quale non era facile dare risposte efficaci e convincenti. I portatori del problema erano reduci dalle guerre di quegli anni nel sud-est asiatico, che avevano subito la prigionia e con essa la fame.

I medici riscontravano non solo alterazioni fisiopatologiche, ma anche comportamenti psicopatologici imprevisti.

Decisero allora di condurre un esperimento con dei volontari, che prese il nome di esperimento di Baltimora.

In breve, selezionarono un certo numero di volontari sani e li sottoposero ad un regime di restrizione alimentare. Quando il peso corporeo di questi soggetti scese al di sotto del 15% del peso normale, accanto ad alcuni sintomi fisici comparvero anche disturbi psichici quali ansia, irritabilità, pensieri ossessivi relativi al cibo, al peso ed al corpo, in alcuni sintomi depressivi o altri ancora più gravi.

In altri termini avevano provocato un disturbo assai simile all’anoressia, disturbo che lentamente regrediva con il ripristino di una alimentazione normale nella maggior parte dei volontari.

Cosa ci insegna questa ricerca? Ci dimostra in modo evidente gli effetti della malnutrizione sul corpo e sulla mente, ci obbliga a considerare il sintomo in modo diverso da una fobia o da un disturbo ossessivo. Ci costringe dunque ad occuparci del corpo e della sua patologia alterata, a progettare interventi di riabilitazione nutrizionale.

Senza tali interventi, che una certa ortodossia psicoterapeutica per anni si è ostinata a negare, la mente rimane prigioniera delle sue ossessioni, i rituali si consolidano e si irrigidiscono, il corpo si deteriora a volte in modo irreversibile.

Prendiamo adesso un altro filo, parliamo delle storie.

Cosa ci raccontano le pazienti ed i pazienti? Abbiamo già detto che spesso le storie si nascondono tenacemente dietro il sintomo ( anche se può succedere l’opposto, che cioè si parli sempre d’altro e si escluda –scotomizzandolo – il comportamento alimentare patologico).

Ma se c’è un ascolto le storie vengono raccontate.

Non credo che vi sia una storia prototipica. In molti hanno provato a farlo, illudendosi che il prototipo studiato fosse emblematico e rappresentativo di un percorso psicopatologico definito.

Ci ha provato la Bruch: molti ricorderanno “ La gabbia d’oro” e gli altri scritti pionieristici di questa studiosa.

Ci ha provato la Selvini-Palazzoli nel suo libro “ Ragazze anoressiche e bulimiche”.

E poi ci sono le storie descritte dalle protagoniste: Fabiola De Clerque oltre vent’anni fa pubblicava “ Tutto il pane del mondo”, alcuni mesi fa Michela Marzano dava alle stampe “ Volevo essere una farfalla”.

Spesso si incontrano l’abuso ed il maltrattamento subiti in età infantile, in ogni caso troviamo una sofferenza che vuole esprimersi in un racconto, ma che rischia di naufragare dentro una sintomatologia che nel tempo può svuotarla di senso, lasciando solamente una coazione monotona e ripetitiva che ha smarrito la dimensione simbolica.

Sembra dunque necessario mettersi in ascolto “ senza memoria e senza desiderio”, per riprendere una famosa frase di Bion. Pare che questo sia praticamente impossibile, perché tutti abbiamo memoria e desiderio; certamente appartenenze, schemi predefiniti, griglie con cui leggiamo il mondo. Dobbiamo e possiamo tuttavia restare consapevoli e vigili sulle nostre appartenenze consentendo ai personaggi di rappresentarsi per come sentono di essere nel mondo.

Non è certo facile: ricorderete nel classico dramma di Pirandello il fastidio ed il disorientamento del regista teatrale di fronte ai 6 personaggi in cerca d’autore che non vogliono altri che rappresentino il loro dramma se non essi stessi che drammaticamente lo stanno vivendo.

Passiamo infine a dipanare un terzo filo, a riflettere cioè sui disturbi alimentari come culturalmente condizionati. Dobbiamo subito ammettere che in quest’ambito lo sguardo medico, ma anche quello psicologico si fanno appannati: in altri termini le categorie concettuali mediche e psicologiche si ritrovano inadeguate e bisogna fare ricorso ad un’ottica antropologica in senso lato.

Ed anche qui le risposte sono molteplici.

Fromm parlava di un uomo mercantile, per il quale quello che conta è la confezione del prodotto più che la sostanza, insisteva inoltre sulla condizione alienata ( da se stessi, dalla natura, dal mondo) e sul vuoto che ne deriva che può essere riempito da oggetti di consumo di vario tipo, cibo compreso.

In riferimento al disagio adolescenziale in senso più ampio ( ricordiamoci che i disturbi alimentari insorgono prevalentemente in età adolescenziale ), U. Galimberti nel suo libro “L’ospite inquietante” indirizza il suo indice verso il nichilismo, una presenza con cui è inevitabile fare i conti in un’epoca che è stata definita “ modernità liquida” da Z. Bauman.

Lo stesso Bauman nell’ “Arte della vita” parla dei disturbi alimentari come conseguenza di un vero e proprio doppio messaggio che ci arriva da televisione, libri di cucina ( fra i più venduti) e riviste varie che propongono il cibo come il massimo della raffinatezza, del buon gusto ed al contempo come pericoloso, tossico, degradante.

Il mio amico Giuseppe Cardamone, assieme a Salvatore Inglese , nel loro approccio etnopsichiatrico, ipotizzano che nel disturbo anoressico si possa intravedere il ritorno del sacro, espulso dalla nostra quotidianità di consumatori.

M. Benasayag e G. Schmit, autori del libro “ L’epoca delle passioni tristi” insistono sulla trasformazione del futuro che da promessa di benessere e progresso è diventato incubo e visione catastrofica; ma soprattutto denunciano l’individualismo esasperato e la visione essenzialmente utilitaristica delle relazioni e dell’intera esistenza.

Forse non è un caso che gli autori del libro citato siano francesi, perché è in questa nazione che è nato e si è sviluppato il movimento antiutilitarista che porta la sigla MAUSS. Si tratta di un movimento ispirato al saggio di Marcel Mauss sul dono , che propone una riflessione sul nostro modello economico che è poi diventato dominante anche al di fuori dell’economia, diventando il paradigma delle relazioni umane.

A questo modello dominante, individualista ed utilitarista, viene contrapposto un altro modello basato sul dono e sui vincoli che esso crea tra le persone di una comunità .

Probabilmente vi chiederete quanto ci stiamo allontanando dalla psicopatologia e dalla clinica.

Io ritengo che queste considerazioni ci riguardino da vicino.

Qualche mese addietro, tra le pagine di un libro ho trovato un biglietto. C’era scritto: “ Beato l’uomo che sostiene il prossimo nella sua fragilità, come, in casi simili, egli stesso vorrebbe essere da lui aiutato”.

E’ una frase tratta dagli scritti di San Francesco d’Assisi ed accompagna un C.D. che una paziente di un gruppo mi aveva regalato.

Un dono dunque. Ma il dono, dentro e fuori del gruppo, è diventato fondamento della relazione terapeutica, costringendomi a ripensare le regole classiche dell’astinenza ed a considerare l’importanza di concrete azioni di aiuto che si integrano con l’esplorazione in seduta delle dinamiche interpersonali ed intrapsichiche.

Vado a concludere.

Il confronto con i disturbi del comportamento alimentare impone anzitutto di occuparsi del corpo, delle alterazioni fisiopatologiche conseguenti alla malnutrizione con un intervento medico e con un intervento psicologico e pedagogico finalizzato alla risoluzione del sintomo.

Anche un trattamento psicofarmacologico può essere di una certa utilità, in presenza di disturbi associati, specie se sono precedenti alla malnutrizione e quindi non soltanto una sua conseguenza.

Bisogna tuttavia ricordarsi che il disturbo alimentare è pur sempre un sintomo, per quanto dannoso e pervasivo, tanto da saturare in apparenza il senso della sofferenza.

Quindi, dopo avere messo sotto controllo il sintomo, diventa indispensabile un ascolto in un setting psicoterapeutico, il più possibile libero da pregiudizi di scuola ed istituzionali.

Ricordiamoci tuttavia che ogni paziente, come raccomandava Armando Bauleo , è un po’ un ambasciatore che parla di sé e della sua famiglia, ma anche delle contraddizioni e della sofferenza presenti nel proprio gruppo di appartenenza.

Sono passati molti anni da quando Sergio Piro raccomandava ai tecnici della psichiatria riformata di riconoscersi nella funzione di tecnici della liberazione, attraverso la ricerca e la denuncia dei malesseri sociali interiorizzati.

Sembra che i servizi se ne siano dimenticati, ma è una dimenticanza colpevole, perché oggi più che mai abbiamo bisogno di una consapevolezza critica verso il mondo in cui viviamo e che non promette certo un futuro rassicurante.

 

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