Prendersi cura dei Servizi Psichiatrici
Pubblicato da redazione
Fonte: “Prendersi cura dei servizi psichiatrici” Mario Mulè (Seminario sulla legge 180/78 in occasione del suo trentennale Trapani, 09/10/2008)
Erano i primi giorni di giugno, anno 1979. Faceva già un gran caldo.
I due infermieri di turno della II uomini erano seduti all’ombra, sotto un albero di acacia appena fuori dal recinto antistante al padiglione.
Avevano entrambi un camice bianco più da garzone di salumiere che da ospedale, ampiamente sbottonato sul petto.
I ricoverati giravano senza sosta dentro il recinto, alcuni seminudi, altri stranamente coperti da abiti pesanti.
Non si scambiavano una parola, chi parlava lo faceva per conto suo, senza bisogno di interlocutori. Tre di loro giravano più vicini, lanciando sguardi bassi e obliqui verso di noi. Dopo qualche minuto ho potuto capire perché si muovevano in questo modo, quando uno degli infermieri buttò via dentro il recinto la cicca che uno di loro afferrò con scatto felino.
Gli infermieri mi accompagnarono nella stanza ( squallida) del medico. Dissi loro che volevo cominciare a conoscere, uno alla volta, i ricoverati e loro mi portarono un uomo già anziano che si aggirava nel camerone.
Restarono di guardia, accanto a me, per proteggermi da quell’uomo triste e muto, secondo una consuetudine che voleva il medico scortato nella sua stanza e mai lasciato solo con i ricoverati.
Racconto questo primo, violento impatto con il manicomio di Trapani per sottolinearne uno degli aspetti peculiari e cioè la relazione di tipo fobico con i malati.
Gli oggetti fobici, come si sa, sono ricettacoli di paure e bisogna tenerli il più possibile lontani da sé. E se proprio siamo costretti ad incontrarli ed a conviverci, il distanziamento, impossibile sul piano spaziale, deve avvenire a livello psichico.
Nei manicomi il meccanismo dominante, come ci ha insegnato Franco Basaglia, è stato ” la reificazione”, la trasformazione dei ricoverati in cosa, in oggetto pericoloso, da guardare prima ancora che custodire.
” Tavoli, sedie e pazienti sono stati contati e risultano in ordine” scrivevano nel quaderno delle consegne gli infermieri a fine turno.
Piccola nota a margine: a Trapani, dopo oltre un anno di 180, gli infermieri venivano ancora chiamati “custodi” ed i loro diretti superiori “sorveglianti”.
Nei giorni e nelle settimane seguenti ho avuto modo di conoscere infermieri, medici, assistenti sociali, economi, portieri….
Vi posso garantire che non avevano nulla di patologico, di sadico. Alcuni erano capaci di amicizia e di generosità e mostrarono nei miei confronti una reale disponibilità. E’ vero anche che quando si proponevano per farsi conoscere mettevano in primo piano la loro vera identità professionale: uno era proprietario di terreni, un altro mediatore, un terzo elettricista…
Il lavoro in ospedale era il posto, non molto onorevole, che tuttavia era fisso, sicuro.
La domanda fondamentale che situazioni come quella descritta impongono è la seguente: ” Come si può arrivare ad un tale stato di degrado che accomuna tutti quanti operatori e pazienti e considerare tutto questo ” normale”; non una condizione professionale ed umana aberrante, ma semplicemente ” la realtà” ?”
La risposta, ormai, la conosciamo tutti.
Ormai sappiamo non soltanto che un’istituzione esercita un enorme potere su chi vi appartiene, ma ne conosciamo anche la forte opacità, la mancanza di trasparenza, che rende cieco chi ci si trova dentro. Ieri come oggi.
In altre parole c’è una enorme difficoltà a leggere l’Istituzione quando si vive nel suo seno: le regole che la governano sono implicite, quasi naturali come le leggi, i riti, le tradizioni di una comunità umana.
Per cogliere il senso di una cultura istituzionale, ci hanno insegnato, occorre assumere una prospettiva ed una metodologia da antropologo, da etnologo e cioè vivere per un certo tempo in quelle realtà ponendosi delle domande, osservando, ricostruendo la storia e l’evoluzione nel suo rapporto con l’abitat in cui è collocata. Qualcuno ha suggerito l’importanza di fare attenzione anche al pettegolezzo: perché, se l’istituzione ha grandi difficoltà a confrontarsi con la verità, a riconoscerla, può succedere che questa venga fuori attraverso il pettegolezzo, che compensa in qualche modo l’ipocrisia istituzionale.
In altre parole, malgrado l’opacità di ogni istituzione, vi sono approcci che rendono possibile individuare delle leggi, delle costanti nella vita istituzionale che ci aiutino a capirci qualcosa.
Già quasi un secolo fa Max Weber ha tentato di tracciare una parabola della vita istituzionale. Questo autore ha notato come ogni istituzione conosce uno stato nascente, in cui gruppi producono, in una sorta di fermentazione generatrice, idee, progetti, orientamenti, spesso sospinti da forti istanze etiche.
Gradualmente si va incontro ad una sorta di cristallizzazione, a volte ad una vera e propria sclerosi. Il principio fondatore, di solito carico di valori etici e di progettualità, cede il posto ad una organizzazione che ha perso di vista la propria missione originaria e tenacemente tende a perpetuare se stessa, attraverso una organizzazione che resiste ai cambiamenti.
Più recentemente, come ben sappiamo, è stato Bion a farci capire come funzioniamo quando viviamo in un gruppo; quanto sia difficile mantenere il gruppo in assetto di lavoro e come si tenda, inevitabilmente, a regredire verso modalità di funzionamento arcaiche ed irrazionali in cui la fanno da padrone potenti sentimenti quali la rabbia, la sottomissione oppure un’aspettativa messianica. E ciò accade soprattutto quando il gruppo si confronta con un compito difficile; e certamente il lavoro con i nostri pazienti, nevrotici psicotici o borderline, non appartiene alla categoria dei lavori facili.
Quanto ho detto finora è la premessa per porre due questioni che mi sembrano importanti per tutti gli operatori:
la prima questione è la seguente: a distanza di 30 anni dalla 180, a che punto della parabola di Weber si trovano le nostre istituzioni psichiatriche?
La stessa problematica può essere esplicitata in quest’altro modo: quanto siamo vicini nelle nostre realtà operative all’assetto ” gruppo di lavoro” o quanto, al contrario, siamo dominati dai famosi assunti di base bioniani ?
L’altra questione che mi sembra importante proporvi è la seguente: cosa si può fare affinché l’istituzione continui a rimanere viva, attingendo energia dalla sua sorgente originaria e contrastando le inevitabili derive sclerotizzanti ?
Come rimanere vicini al principio ( all’emozione fondatrice, per dirla con Racamier) che ha dato vita alle nostre istituzioni che, nei servizi sanitari è quello di curare, ma anche prendersi cura, proteggere, allontanare il male, come diceva Fornari ?
Partiamo dunque dalla prima questione.
Nei mesi che seguirono la riforma si fece strada in molti di noi la consapevolezza di una rivoluzione copernicana non solo nell’organizzazione dell’assistenza ma soprattutto nella stessa identità scientifica della psichiatria.
Questa disciplina era stata fondata e costruita nell’arco di circa due secoli dentro quel laboratorio perverso, dentro quelle mura che avevano isolato le persone dal loro ambiente naturale e ridotto la mente ad un cervello guasto che produceva comportamenti bizzarri, incomprensibili e pericolosi.
L’altro laboratorio, più sofisticato e ricco di pensiero, era stato la stanza d’analisi che però quasi mai aveva visto nella veste di pazienti persone con disturbi psicotici.
Ma se cambiava il contesto, se lo scenario ormai doveva essere aperto al mondo a 360°, senza selezione dei pazienti, con la compresenza del sociale che condivideva la sofferenza, a partire dalla famiglia, inevitabilmente dovevano cambiare i paradigmi, gli strumenti concettuali e la prassi.
Tutto ciò sapeva di avventura, di esplorazione, di scoperta.
C’era inoltre una forte istanza etica, presente in quel momento storico che ci ha fatto sentire, con le parole di S. Piro, tecnici della liberazione.
Ricordo ancora molto bene i seminari di S.Venerina, come una sorta di pellegrinaggio alla ricerca di un pensiero che ci aiutasse a capire. Eravamo veramente tanti e tanti sono stati gli ospiti, quasi tutti psicanalisti non rigidamente ortodossi, che hanno offerto gratuitamente il loro contributo: Ammaniti, Zapparoli, Bauleo, Corrao, Tranchina e tanti, tanti altri.
Nel frattempo, in tutta Italia, si sperimentavano nuovi modi di curare, nascevano a Torino i Centri Diurni in cui trovavano posto nuove tecniche: il sociodramma, l’arteterapia, le terapie corporee, etc.
In Sicilia si era costituito presso l’Assessorato alla Sanità un gruppo con il compito di fornire gli strumenti legislativi e le risorse necessarie per avviare la nuova assistenza psichiatrica e già nel 1979 era stata varata una buona legge, la 215, cui fece seguito negli anni seguenti un piano attuativo adeguatamente finanziato.
Nell’arco di alcuni anni tutto questo lentamente è andato esaurendosi, anche nei luoghi dove c’era stata una feconda operosità, si è fatta strada la fatica, la stanchezza, non raramente il distanziamento fino ad arrivare, in alcuni casi, ad una posizione di tipo fobico-evitante più o meno camuffata da razionalizzazioni e dall’utilizzo di modelli teorici semplificanti e riduttivi, come nel caso del DSM.
Le cause di questa trasformazione involutiva sono certamente tante:
i pazienti via via sono diventati sempre più numerosi, le risorse si sono assottigliate, l’aziendalizzazione non raramente ha assunto connotati clientelari e disfunzionanti, è venuto a mancare il sostegno culturale che aveva portato alla 180.
Questi aspetti sono in gran parte veri ed innegabile è l’influenza che hanno esercitato verso il progressivo impoverimento di servizi. Tuttavia io ritengo, come altri colleghi, che ci sia anche qualcos’altro, qualcosa che va cercato dentro gli operatori, nel loro vissuto prima ancora che nei loro pensieri.
A. Correale, in un recente libro molto interessante e che mi ha molto aiutato nella stesura della relazione di oggi, parla di fatica, con il suo portato di malessere ed a volte di stupore, inevitabile nel confronto con la condizione psicotica che ci sta di fronte, che si ripropone con connotati di inesauribilità e di insistenza. Ricordo A. Bauleo, recentemente scomparso e che vorrei ricordare qui con affetto e riconoscenza per il suo impegno, la sua gioviale umanità e la ricchezza del suo pensiero, che ogni tanto ci avvertiva: “Il paziente psicotico è un prodotto tossico,” diceva ” che può inquinare e danneggiare l’organismo di chi subisce il contatto”.
E già molti anni fa non uno psichiatra, ma il genio di L. Pirandello che la follia aveva incontrato dentro casa sua ( come si sa, la moglie soffriva di una psicosi paranoica che l’ha portata nel tempo ad essere internata in una clinica per malattie mentali ) ci diceva che la follia, come medusa, ha il potere di sconvolgere chi la incontra e la guarda da vicino, di toglierti la terra sotto i piedi..
Cercando di essere più precisi, l’incontro con lo psicotico che sperimenta la perdita della realtà, che vive il vuoto e la morte, che procede nel mondo nella dimensione del caos ci mette inevitabilmente di fronte alla tragicità dell’esistenza.
Senza accorgercene, come gli addetti ad una centrale nucleare che emette radiazioni inquinanti, ci possiamo ritrovare gravemente danneggiati.
C’è da meravigliarsi dunque, se istintivamente si prendono le distanze nei modi più vari, fino ad arrivare a pratiche di rifiuto rabbioso dell’altro, dell’alieno ?
Alienista era la parola che definiva questa speciale modalità di essere medico.
Oggi gli alieni sono anche tanti altri, rumeni, albanesi, extracomunitari, termini che anzichè indicare una provenienza indicano una distanza, extracomunitario come equivalente della parola barbaro usata dai Romani in contrapposizione al civis.
Forse anche i tempi non sono favorevoli all’incontro con l’altro: tolleranza zero è diventata la parola d’ordine, anche se, ripeto, c’è qualcosa in più e più specifico nei nostri psicotici che ci confronta con tematiche tragiche che spingono al distanziamento ed alla insensibilità.
Qualche altra considerazione sui nostri tempi mi sembra opportuna.
Armando Bauleo, che voglio ancora ricordare, ci raccomandava di fronte ad ogni paziente di chiederci:” Chi rappresenta costui? Di quale comunità, di quale ambiente è ambasciatore?” Ci incoraggiava dunque ad esplorare, al di là della condizione individuale, quanto della sua sofferenza provenisse dal sociale.
Già Fromm aveva cercato di delineare una patologia della normalità e più recentemente, in ambito gruppoanalitico, Girolamo Lo Verso ha insistito sul ” transpersonale” cioè sulle quote della nostra personalità che provengono dal mondo socio-culturale in cui stiamo vivendo.
Nei mesi scorsi queste domande sono emerse con forza in occasione del I Congresso Nazionale della Società Italiana per la Deontologia ed Etica in Psichiatria.
Il ” melieu” in cui oggi viviamo, secondo la lettura che viene fatta dal famoso sociologo Bauman, è quello di una società che corre verso la fine della comunità, e l’affermarsi di una società liquida, individualizzata, privatizzata. In questa società liquida domina l’incertezza. Il confronto con il futuro avviene nel vissuto della minaccia, perché nell’epoca nostra post-moderna non c’è più un futuro-promessa.
Cessata la lotta per cambiare il mondo secondo ideali illuministi o futuristi o marxisti, che comunque pensavano al futuro in termini di progresso ed emancipazioni, oggi si vive per trovare uno spazio in questo mondo, tralasciando le regole del gioco purchè ci si possa sedere al tavolo da gioco.
Tutto questo, se è vero, non può non riguardarci da vicino,perché fra le strutture comunitarie messe in crisi ci sono soprattutto le Istituzioni e certamente anche le nostre.
Nella realtà operativa l’incontro con il paziente grave non è soltanto un incontro a due, in un territorio privato.
L’incontro sappiamo che avviene sempre tra il paziente e la sua famiglia ( più o meno provata e sofferente ) da una parte, e dall’altra l’Istituzione. Il paziente e la sua famiglia incontrano il servizio ed è al servizio come istituzione che bisogna rivolgere la necessaria attenzione e le cure dovute.
Non credo che sia buona cosa decretare la morte o la degenerazione irreversibile dei nostri servizi, dichiarando decaduti e vuoti di senso parole come territorio, integrazione,continuità terapeutica, non credo cioè che sia inevitabile pensare, come viene suggerito dai post-moderni, ad un rifugio individuale nell’etica di derivazione kantiana e dei suoi imperativi categorici.
La citazione che sento fare spesso in ambito psichiatrico di un principio sostenuto già un millennio fa da Roscellino (” Nihil est preter individuum”, nulla può prescindere dall’individuo ), mi pare, a mio modesto modo di pensare, un ripiegamento che prelude alla rinuncia, alla sconfitta.
Non si tratta di negare valore ad istanze etiche radicate nell’individuo, non si vuole cioè disconoscere l’importanza delle spinte etiche individuali che un post-moderno come Vattimo chiama “secolarizzazione dell’etica cristiana della carità”, ma di mettere queste istanze al servizio non soltanto del malato, ma anche delle istituzioni che risultino sofferenti.
Proviamo perciò ad avvicinarci ai nostri servizi con spirito clinico, cioè con l’intenzione del medico che si china verso il paziente malato per auscultarlo, per fare diagnosi e proporre trattamenti terapeutici…
Prima abbiamo intravisto i servizi nel momento della loro istituzione. L’assetto emotivo di fondo è stato almeno per alcuni di essi – perché altri al contempo restavano tenacemente stretti alla istituzione manicomiale-, quello descritto da Weber come ” stato nascente”.
Un principio ispiratore dotato di una forte valenza etica alimentava questi servizi, in genere guidati da un leader che lo condivideva e lo incarnava.
Il meccanismo sottostante è stato descritto in ambito psicoanalitico con il termine idealizzazione, depurato dai connotati kleiniani e ricondotto piuttosto al concetto freudiano di narcisismo primario, con il quale si intende il bisogno di una vicinanza profonda con l’altro sentita come sorgente di perfetta armonia e di benessere.
Se il gruppo è sospinto da questa tendenza idealizzante e trova nel leader la sua incarnazione, si attinge ad una energia vitale profonda e generativa.
Ma il gruppo istituzionale non riesce a restare in questa dimensione. Se ci è consentito un paragone con un livello altro, la politica in Italia solo per pochi anni ha potuto mantenere lo spirito ispiratore della Costituente e nel tempo si è assistito ad una involuzione resa pubblica qualche anno fa dal fenomeno chiamato tangentopoli.
La politica, diceva Freud, assieme all’insegnamento ed al lavoro psicoterapeutico, rientra nella triade dei mestieri al limite del possibile.
E quando un gruppo si confronta con un compito al limite del possibile, quale è il nostro, perde le connotazioni di cui parlavamo prima e si avvia a funzionare in modo primitivo: il compito per il quale è stato istituito diviene sempre più burocratizzato, perde interesse e vitalità.
Potenti emozioni sotterranee si fanno strada e specialmente nei momenti di maggiore difficoltà si impongono quegli assunti di base che Bion ci ha fatto conoscere.
Di volta in volta sottomissione,rabbia o attese irrealistiche di tipo messianico spingono il gruppo lontano da un assetto che il compianto Bauleo chiamava gruppo operativo.
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La domanda che dobbiamo porci a questo punto, e passo con essa alla seconda questione, è se tutto ciò sia inevitabile. In altre parole se la parabola di Weber sia un tragitto obbligato per cui non possiamo fare altro che aspettare la fine della crisi nella speranza di un nuovo stato nascente oppure se possiamo fare qualcosa per rimanere abbastanza vicini allo spirito fondatore dei servizi di psichiatria o, se vogliamo dirlo in altro modo, per mantenere un assetto di gruppo operativo.
Per quanto mi riguarda penso che questa seconda possibilità esista anche se non è frequente la sua realizzazione; e che comunque sono necessari alcuni ingredienti fondamentali.
Il primo ingrediente che vorrei segnalare è la necessità di un linguaggio, la disponibilità per gli operatori di parole e concetti che ci rendano capaci di capire la follia e di parlare con i folli. Diego Napoletani tempo fa parlava di una ” infantilizzazione” degli operatori psichiatrici, resi privi di parola come un infante, al confronto con la follia. Già Jaspers aveva parlato di un limite al comprendere e della necessità di ricorrere alla spiegazione davanti ai fenomeni ed ai vissuti psicotici, anche se lui stesso descrivendo ad esempio le alterazioni o meglio le metamorfosi delle funzioni dell’Io ha notevolmente ampliato i confini del comprendere conquistando spazi che sembravano destinati ad un approccio ” esterno”, anzichè condivisibili all’interno di una relazione empatica.
Questo vocabolario non lo troveremo certamente nel DSM IV che al di là dei limiti nella sua scelta categoriale, non è stato concepito allo scopo di favorire un incontro profondo con l’altro, ma con esigenze diverse e legittime, anche se ormai schiere di nuovi psichiatri si sono appiattiti in un approccio nosografico.
Io credo che senza l’aiuto di autori come il già citato Correale che appartiene all’area psicoanalitica ma è aperto ad altri contributi; senza i contributi provenienti dall’approccio fenomenologico e antropofenomenologico per citare quelli che a me sembrano i più significativi, veramente siamo come infanti privi di parola o come si può essere di fronte a qualcuno che proviene da un’altra parte del mondo che ci parla in una lingua che non conosciamo.
Personalmente non posso fare a meno di utilizzare le parole ( il pensiero ) di Benedetti come di Borgna, di Pontalti come di Ballerini o Rossi Monti, ovviamente con tutti i limiti sia personali che inerenti l’oggetto di studio e che ci lasciano sempre ai bordi del comprensibile.
Quante ore siamo capaci di dedicare allo studio di autori come ad es. Blankereburg, peraltro non di facile lettura, ma indispensabili per capire quel fenomeno psicotico fondamentale che egli ha chiamato ” perdita dell’evidenza naturale” ?
La fatica, di cui parlavamo prima, quante energie ci lascia disponibili per un impegnativo lavoro di lettura e di studio ?
Un altro ingrediente fondamentale che voglio segnalare è la riflessione sul caso in èquipe.
Ciò che avviene nell’incontro tra l’operatore ed il paziente grave o tra il paziente e l’istituzione, con il suo portato di affetti, fenomeni transferali, agiti messi in atto da entrambe le parti, non ha la possibilità di essere resa visibile in una mente individuale. È invece indispensabile una riflessione di più menti, si potrebbe dire di una gestazione collettiva perché il caso diventi una storia che ha senso, un percorso che ha conosciuto occlusioni o ripiegamenti non casuali, che ci indichi gli ostacoli presenti nel paziente o nel gruppo di lavoro o nell’ambiente familiare o altrove; solo in questo modo si può cercare di far progredire quella persona ed allargare, come dice Pontalti, la sua area di esistenza.
Mi pare di capire che oggi nei servizi si fanno riunioni organizzative o di altro tipo, ma deve essere chiaro che non si tratta della stessa cosa.
L’assetto ” èquipe che pensa” richiede una certa fiducia,una qualche intimità, un clima sufficientemente accogliente perché si possa portare vissuti di dubbio, di sconfitta, di rabbia o di altro; comunque qualcosa di veramente sentito e personale.
Solo cosi’ potrà emergere quello che di fondamentale sta succedendo, che possiamo anche chiamare il transfert; solo cosi’ potranno essere raccolti tutti gli altri elementi che porteranno ad una conoscenza che spesso si fa strada e si impone attraverso una icona, a forte valenza metaforica, comprensibile e condivisibile da tutti gli operatori.
L’èquipe e la sua possibilità di esistere ci portano a considerare un terzo ingrediente necessario e cioè la funzione del leader.
Uso la parola leader anziché quella di primario o di responsabile di struttura perché si presta a connotare le dinamiche affettive di cui, volente o nolente, consapevolmente o inconsapevolmente, è protagonista ” il capo”.
Egli può incarnare gli aspetti idealizzanti buoni costitutivi della Istituzione ( curare, prendersi cura, sviluppare conoscenza, etc.) ed allora queste istanze si trasmetteranno a gran parte del gruppo di lavoro.
Ma può anche incarnare gli aspetti ” degenerati” che si sono sviluppati nel gruppo che allora tenderanno a cristallizzarsi rigidamente nella struttura organizzativa da lui guidata.
Il leader deve essere capace di guardare alle funzioni presenti nel gruppo che possono non coincidere con gli incarichi. C. Neri ha fornito un esempio di funzione presente in un gruppo descrivendo quello che egli ha chiamato il ” Genius loci”, e cioè l’esigenza portata avanti da qualche membro del gruppo di custodire la storia, l’appartenenza, il valore e le conquiste del gruppo. Altre funzioni non ufficiali di notevole valore, spesso presenti in sottogruppi o in singole persone sono quella ironico-sdrammatizzante, quella coraggioso-protettiva, etc.
Queste funzioni non ufficiali vanno conosciute e coltivate, ” come in una riserva naturale orientata”dice Correale.
E c’è ancora la necessità di sapere guardare non soltanto agli aspetti organizzativi, pure necessari ( protocolli, mansionari,etc. )ma di scrutare il clima affettivo, potremmo dire l’anima della istituzione cogliendone di volta in volta aspetti esaltati o depressivi o devianti.
Vi è ancora la necessità che il leader curi il raccordo, il collegamento fra i vari gruppi di lavoro o fra i vari sottogruppi che inevitabilmente si formano: Mercurio più che Giove, è stato detto in modo molto efficace.
Per dirlo in un linguaggio più tecnico, la funzione del leader è quella di vigilare ed operare affinché il gruppo si mantenga nell’assetto di un gruppo operativo, tenendosi il più lontano possibile da quelle fughe verso emozioni primitive conosciute come assunti di base.
Un cenno ad un altro ingrediente che pure mi sembra fondamentale che indicherei come la capacità dell’Istituzione di aprirsi all’esterno dialogando con il mondo: il mondo scientifico, il mondo delle professioni affini, delle associazioni, in generale del sociale.
Un aspetto particolare di questo aprirsi merita di essere sottolineato: prima facevo riferimento ad una modalità conoscitiva molto utile quando si tratta di studiare le istituzioni che è stata definita l’ottica antropologica. Per i nostri servizi l’antropologo può essere il volontario o il tirocinante, ma l’esercizio di questa funzione fondamentale spetta sicuramente al supervisore. Sempre che gli consentiamo non solo di venire nei nostri servizi, ma di guardare ed ascoltare, senza alzare muri e paraventi, per il tempo necessario ad una vera conoscenza.
Perché da noi in Sicilia le esperienze di supervisione, cosi’ preziose e direi indispensabili per la vita dei servizi, non hanno mai messo radici?
Come leggere questa resistenza? Dobbiamo fare riferimento ad aspetti trans-personali? Per es. siamo tutti uomini di panza? Una riflessione su questo fenomeno di vera e propria occlusione di una funzione essenziale penso sarebbe assai utile.
Mi avvio alla conclusione.
Quando si parla del lavoro psichiatrico giustamente si sottolineano le difficoltà, le fatiche, gli aspetti tossici addirittura.
Mi sembra giusto ricordare che c’è anche un’altra faccia della medaglia.
Lo psicotico che delira sulle sue origini non ci porta soltanto nel suo mondo autistico enigmatico ed alieno; ci pone anche, radicalmente, una domanda sull’identità.
Il paziente che vive tragicamente la perdita della realtà o della vitalità ci pone di fronte al problema della perdita più inquietante per ognuno di noi e cioè al problema della precarietà della vita e della sua limitatezza.
E come in passato l’isteria ci parlava della sofferenza dei subalterni, in primis delle donne e della repressione della loro sessualità, forse oggi la patologia borderline ci illustra, dilatandola, una condizione dell’uomo contemporaneo che subisce il potere invasivo del mondo esterno, che cerca e patisce stimolazioni senza riuscire ad interiorizzare le esperienze, a dare una struttura di senso dentro di sé a quanto va sperimentando.
Il nostro lavoro, in altri termini, ci pone di fronte alla complessità umana, cosi’ enorme e sconvolgente da suscitare stupore.
Stupore, ci ricorda D. Napoletani, allude sia allo stato stuporoso ed alla confusione mentale, sia alla meraviglia, all’emozione forte della conoscenza e della scoperta.
L’invito a tutti noi, e l’augurio, è quello di non dimenticare che, impastata con la fatica e la confusione, esiste ancora la possibilità di vivere l’emozionante incontro con il meraviglioso.
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