Note sui “Disturbi d’ansia”
Pubblicato da redazione
Fonte : “Note sui disturbi d’ansia” di Mario Mulè
Nel nostro linguaggio si trovano parole che includono uno spettro di significati molto ampio, con differenze tali tra di loro da far venire il dubbio sulla opportunità di utilizzare un’unica parola per realtà così diverse fra di loro.
Un esempio ci viene offerto dalla parola “ amore”, un altro – che ci riguarda più da vicino – dalla parola “ ansia”.
Alla voce ansia, nel vocabolario della lingua italiana Treccani, troviamo: “ forte agitazione dell’animo per desiderio, attesa, o per timore e preoccupazione; stato di affannosa incertezza…”
Che si tratti di emozioni diverse si deduce anche dalle esemplificazioni: “ ansia di gloria”, “ stare in ansia per qualcuno”: non sono proprio la stessa cosa!
Il DSM, come sappiamo, ha istituito un capitolo sui disturbi d’ansia, mettendo insieme vari quadri clinici accomunati da questo sintomo, che peraltro non viene definito.
Facendo questa scelta, ha abbandonato il termine nevrosi, fino a qualche anno fa in uso per indicare un’area in parte sovrapponibile.
Cosa ha guadagnato, e cosa ha perso, la psichiatria con questa nuova impostazione? Senza entrare in maniera articolata nel tema, mi limito a segnalare quanto dichiara F. Giberti:
“ In conclusione, da questa rivoluzione odierna che ha interessato il capitolo delle nevrosi, si riceve l’impressione che si sia guadagnato poco…Molto, forse, con questa nosologia descrittiva, è stato perduto nella comprensione di questa grande area della condizione umana…( si deve registrare infatti ) la caduta di consistenza in quanto automi di quadri in realtà generici e poliedrici come gli attacchi di panico. La stessa differenza tra nevrosi e disturbi di personalità sta diventando discutibile. Si riafferma anche l’esigenza di vedere le nevrosi dal punto di vista del loro significato in quanto messaggio psicologico, non tenendo conto del quale la terapia tende a diventare problematica ed incompleta.”
Sono trascorsi oltre dieci anni da quando Giberti proponeva le sue riflessioni critiche. In questi anni il paradigma categoriale e l’impostazione nosografia hanno finito per espandersi, contaminando sempre di più l’approccio clinico, in una sorta di sudditanza culturale verso la psichiatria ufficiale nord-americana, coprendo con un velo di oblio il patrimonio ricco di riflessioni sul metodo e di profonde intuizioni cliniche che la psichiatria europea di ispirazione fenomenologia e psicoanalitica ci hanno consegnato. Ci si è abituati sempre di più a confrontarsi con il paziente sofferente facendo leva con un paradigma semplificante e riduttivo, che rischia di dimenticare il disperato bisogno di senso che l’altro ci chiede.
Il paziente merita di meglio e di più di una etichetta diagnostica, peraltro di dubbio valore scientifico e sostanzialmente convenzionale, e di una prescrizione farmacologia.
Sono, queste operazioni, utili e necessarie in molti casi; è forse inevitabile che la nostra mente trovi qui un primo ancoraggio ed un primo ordinamento; purché non si rimanga imprigionati in questo primo momento e si proceda oltre.
Uno dei modi per andare oltre nel confronto clinico con la patologia psichiatrica è quella di fare riferimento, anziché a categorie nosografiche, ad “ordinatori psicopatologici”.
Ballerini e Stanghellini definiscono gli organizzatori psicopatologici come “ organizzatori di senso, cioè schemi di comprensione tendenti a connettere le differenti esperienze psicopatologiche di una persona in un unitario universo di significato”.
Privilegiare organizzatori psicopatologici non significa negare l’utilità di organizzatori nosografici, ma vuole indicare una congruenza ed una utilità maggiori degli organizzatori psicopatologici nell’ambito terapeutico, collocando gli altri prevalentemente nell’area della ricerca, come del resto esplicitamente dichiarato dagli estensori del DSM IV.
La frequentazione quotidiana con i pazienti affetti dai cosiddetti disturbi d’ansia mi ha suggerito la possibilità di individuare almeno tre organizzatori psicopatologici. Essi sono: 1) l’angoscia di morte; 2) la vergogna; 3) l’angoscia di separazione e di perdita.
1) Da qualche tempo, ascoltando i pazienti con “ disturbi d’ansia”, mi è sembrato che alcuni di loro, in modo certamente implicito ed allusivo, ci parlino dell’angoscia di morte.
Dal libro “ La mente prigioniera “ di Lorenzini e Sassaroli, il racconto di una paziente:
“ La mia crisi d’ansia, la prima, è come un fulmine a ciel sereno…mi cambia la vita per sempre. Mi è sembrato di morire, da allora ho cominciato a pensarci, e a pensarci ininterrottamente e non riesco a smettere, come un timore, un luogo tremulo di paura che colora tutta la mia vita e la rende diversa da prima, oscura, timorosa, senza prospettive, con la morte che incombe (corsivo mio ) e che può arrivare da un momento all’altro.”
Gli Autori sviluppano il discorso indicando “ la prima crisi come il paradigma della paura, e dalla seconda crisi in poi si può parlare di paura della paura.”
Di morte non si parla più, ed immagino che anche la paziente prima o poi eviterà di parlarne, dovendo assumere il linguaggio ed il senso fornito dai terapeuti.
Ho riportato questo esempio non per attaccare il modello cognitivo comportamentale, ma per indicare la tendenza, comune a vari approcci teorico-clinici, ad evitare accuratamente di parlare della morte e dell’angoscia che l’accompagna.
Ma perché quest’area cieca, questo non vedere ( non ascoltare ) ciò che ci viene portato, anche se non sempre con parole esplicite, come fa la paziente in questione?
“ Il nostro inconscio non crede alla propria morte, si comporta come se fosse immortale”, dichiarava Freud, aggiungendo “ forse questo è pure il segreto dell’eroismo”.
Aggiungeva anche che il suo era un ragionamento speculativo, perché non aveva mai avuto esperienze dirette di combattimento.
Vincenzo Rabito, un contadino siciliano quasi analfabeta che invece aveva combattuto nella Grande Guerra, così ricordava quei giorni di trincea:
“ Così tutte non si ha pensato altro – quelli che erimo vive- : “ Questa volta si muore, “ perché non c’era altro scampo che la morte…”
E quando racconta di un tenente e di un sergente che, al grido di “ Avante Savoia”, escono dalla trincea lanciandosi contro il nemico seguiti da 30 “ forsennate” soldati, li descrive come “ nervosi e mafiosi” e, in buona sostanza, incontinenti.
Con tutto il rispetto, non mi convince la formula freudiana dell’immortalità contenuta nell’inconscio, e neanche l’affermazione che l’angoscia di morte sia qualcosa di secondario, provenendo dal senso di colpa a causa dell’ambivalenza nei confronti delle persone defunte.
L’inconscio ( ed il preconscio ) sanno bene qual è la verità:
“ In stato di sogno ( dunque nell’inconscio ) abbiamo una percezione molto chiara di noi come soggetti, come creature sensibili, in quanto esseri umani; ma tale percezione resta separata dalla vita materiale…” Chi parla è Erich Fromm, per il quale l’inconscio non è tanto un deposito di contenuti rimossi, quanto l’uomo nella sua globalità e complessità.
Se dunque dobbiamo trattare della morte e dell’angoscia di morte, siamo costretti ad allargare la sguardo verso altri orizzonti, a cercare altri contributi, visto anche il loro scarseggiare nell’area della clinica psicopatologica, con tutte le difficoltà per uno psichiatra ( o almeno per me ) connesse all’affrontare un tale tema in un’ottica allargata.
Consentiamoci comunque qualche “ incursione” in territori confinanti.
Pascal, come ci ricorda Galimberti, parlava di “ divertissement” che però non era divertimento, quanto il di-vergere l’attenzione, il dis-trarsi, il distogliere lo sguardo, nelle sue innumerevoli edizioni che vanno dal cinismo alla fede religiosa, dalla fredda razionalità all’abbandono alle passioni ed a quanto ci può distrarre e travolgere.
Signori miei, direbbe Pascal, tutto ciò è divertissement, è distrazione dalla condizione umana che, a differenza della condizione animale non è ignara dell’ultimo giorno.
Dal racconto di Tolstoj “ La morte di Ivan Il’ic”: Pètr Ivanovic è andato a far visita all’amico morto, assolvendo nel modo più conveniente il compito che purtoppo gli obbligava di compiere, visti i loro rapporti, sentendosi un visitatore “ guardato” e un po’ impacciato, ma cercando di apparire come è opportuno in questi casi. Poi, con il racconto che fa la vedova delle ultime ore dell’amico,
“ Nonostante fosse sgradevolmente cosciente dell’ipocrisia propria e di quella donna”, il pensiero delle sofferenze di quell’uomo lo riempì di terrore: “ Rivide la fronte, il naso schiacciato sul labbro, ed ebbe paura per se stesso.
Tre giorni di terribile sofferenza e la morte. E può succedere anche a me, in ogni momento, anche subito, pensò, e provò un attimo di terrore.
Ma subito, senza nemmeno rendersene conto, gli venne in aiuto la solita idea che questo era successo a Ivan Il’ic, e non a lui…fatta questa riflessione…si calmò e cominciò a fare un gran numero di domande…come se la morte fosse un’avventura che riguardava solo Ivan Il’ic , non lui.”
La sera andrà, come al solito all’appuntamento con gli amici che lo aspettano per la partita a carte.
“ Divertissement”, direbbe ancora Pascal.
Ma cosa succede quando la morte non colpisce qualcuno che in fondo è sufficientemente lontano da noi, ma ci sfiora direttamente o colpisce qualcuno che fa parte della nostra vita?
Qui il divertissement non funziona più. Diventa un tentativo inutile per quanto continuamente ricercato e ripetitivo, come succede “ all’uomo dal fiore in bocca” di L. Pirandello.
Passava le giornate a guardare le vetrine, ad osservare i commessi che impacchettavano stoffe o altro. Era questo il suo divertissement, portare l’attenzione fuori da sé, al mondo circostante, cercando di entrare nella vita degli altri, tenendo lontana la mente da sé, dalla sua vita, dal suo corpo e soprattutto da quella neoformazione sul labbro, da quel fiore in bocca dal nome gentile e terribile: epitelioma. La morte era passata, gli aveva lasciato il suo marchio, avvertendolo che non subito, ma poi, “ passerò”.
Da quel momento la sua vita è segnata dallo sforzo di distrarsi, ma il terrore che cerca di tenere lontano ritorna con violenza ogni volta che vede la moglie, invecchiata e distrutta dal dolore, ormai incanutita prima del tempo, perseguitata dalla morte.
Lui la caccia via, non vuole neanche tornare a casa, ora che è notte fonda, per non incontrarla, in realtà per non incontrare l’angoscia di morte che cerca di allontanare.
Un aspetto che mi pare importante segnalare in queste due opere è la capacità degli Autori di raccontarci non un discorso sulla morte, ma di parlare dell’angoscia dell’uomo di fronte ad essa, quando vi si trova a “ tu per tu” e gli si impone, malgrado i tentativi per distanziarla.
A scuola molti di noi hanno studiato “ I sepolcri” di Ugo Foscolo; ci hanno spiegato l’importanza della memoria dei grandi, del valore di quanto ci hanno consegnato e che va custodito insieme alle loro urne. Dunque, un discorso sulla morte. Forse non ci siamo soffermati sui pochi versi, che quasi “ en passant” parlano dell’angoscia di morte:
“………………………..le madri
balzan né sogni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del loro caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta.
Nella pratica clinica non è raro riscontrare nella storia di pazienti con disturbi d’ansia eventi in cui sono stati esposti all’esperienza della morte di un familiare.
In questi casi, accanto a sintomi aspecifici collegati allo stato d’ansia, si può riscontrare l’insorgenza di una sintomatologia più acuta laddove qualcosa alluda e faccia temere malattie mortali, o incidenti o comunque eventi ad esito letale. Si può avvicinare ad un incontro con la morte anche l’attacco di panico, proprio perché contiene questo vissuto, che irrompe improvviso e si impone lasciando il soggetto impotente e terrorizzato, come il povero viandante assalito dal dio Pan,
Parlavo prima di aspetti aspecifici. Sappiamo bene quanto comuni siano, nei disturbi d’ansia, le paure agorafobiche, quelle claustrofobiche, il potere rassicurante della propria casa, l’importanza di presenze che possano prestare aiuto, etc.
Si tratta quindi di emozioni e comportamenti che rimandano, più che alla storia personale, alla storia evolutiva della specie umana.
Perciò non è improprio utilizzare concetti provenienti da quel ramo della psichiatria che è stata chiamata darwiniana o evoluzionista,ove possiamo trovare il concetto di “ prepotency”.
Con questo termine si intende la capacità che alcune situazioni hanno di creare uno stato di allarme per condizioni ambientali potenzialmente pericolose: la paura dell’altezza, di spazi aperti dove si può essere attaccati, di spazi chiusi dove si rimane intrappolati, la ricerca di luoghi sicuri e conosciuti e di compagni affidabili, sono tutti comportamenti che presentano un vantaggio per la sopravvivenza; perciò non c’è da meravigliarsi se li ritroviamo nella specie uomo, come in molti animali evoluti, con l’avvertenza tuttavia che nell’uomo la reazione di paura non viene attivata solo da pericoli reali, ma anche da condizioni simboliche. E tuttavia ciò non ci esenta dal subire meccanismi primordiali ( irrazionali ) e ormai disadattivi.
1) Nella mitologia greca si raccontava che il dio Pan, custode dei campi e delle messi, aveva un bisogno assoluto, nei meriggi assolati, di schiacciare un pisolino:guai se qualcuno lo disturbava, doveva vedersela con l’ira funesta di un dio infuriato che lo colpiva senza scampo all’improvviso.
2) L’attenzione e l’ascolto della paura e della morte che così frequentemente ci portano i nostri pazienti non deve farci dimenticare che esistono altre paure che affondano le radici nella condizione umana.
Qualche vignetta clinica ci può aiutare a sviluppare il discorso.
Paolo è un uomo di 38 anni, avvocato, avviato in modo soddisfacente nella carriera professionale. In passato ha avuto “ un mezzo attacco di panico”, per esprimerci come lui; attualmente è molto preoccupato da una sensazione di sbandamento, di un malessere vago che fa temere uno svenimento, che lo coglie frequentemente, anche più volte al giorno.
Ricercando il senso di questo disturbo si arriva a comprendere che l’emozione dominante, da cui continuamente deve difendersi, è la vergogna. Infatti il disagio
compare quasi sempre quando è esposto alla vista ed al giudizio degli altri. La paura
non riguarda qui tanto la possibilità che il malore abbia conseguenze mortali, quanto l’esporsi agli altri come persona fragile, inconsistente, inadeguata sia socialmente sia sul piano caratteriale.
Si è potuto riconoscere, nella storia di vita del paziente, uno sforzo continuo tendente a mimetizzarsi, ad esibire l’appartenenza ad uno stato sociale elevato ( possiede tre Rolex, conosce tutti i locali “ in”, etc).
Si potrebbe dire che ha costruito un falso sé, adattandosi alle norme del contesto sociale a cui aspira ad appartenere, vivendo continuamente il pericolo dello svelamento, di essere svergognato.
Non bisogna sottovalutare questo genere di paura. Può essere utile ricordare che una delle peggiori condanne che si potevano infliggere all’uomo era l’esilio. Far parte di una comunità umana, sentire di avere un posto, un ruolo, sentirsi accettati è fondamentale per ognuno di noi. E anche se la paura non assume in questi casi connotazioni estreme ( di panico ) come nell’angoscia di morte, è tuttavia abbastanza potente da condizionare la vita di una persona.
Nella storia familiare di queste persone è facile trovare il bisogno di una scalata sociale, l’ambizione di “ elevarsi” collocandosi in uno stato sociale superiore. Il futuro paziente è stato investito di questa missione, ha frequentato la scuola dei ricchi, e volentieri i genitori hanno pagato vestiti firmati e tutto quanto consentisse al futuro uomo di successo di apparire come gli altri, di non fare “ cattive figure”.
3) C’è ancora almeno un’altra paura che merita di essere ricordata ed è l’angoscia di separazione, certamente più presente nella letteratura psicologica e psichiatrica.
La potenza di questa paura ci viene svelata dal pianto disperato del bambino “ abbandonato” dai genitori al primo giorno d’asilo, dal grido carico di angoscia e di rabbia “ voglio la mamma” che tutti abbiamo sentito, anche se non tutti l’abbiamo gridato.
L’adulto non può certo gridare “ voglio la mamma”, ma l’emozione di paura può essere la stessa. Non è raro che in queste situazioni si intraveda l’angoscia di morte ma in questi casi la paura della morte riguarda più i propri cari che se stessi, è la paura di una perdita definitiva che perciò terrorizza, insinuandosi continuamente nella mente, attivando strategie di controllo, prevedendo pericoli, evitando tutto quanto può portare ad una perdita, ma con un’attenzione rivolta in prevalenza verso l’altro.
Letizia, una giovane donna sposata e madre di un bambino, è ossessionata da sempre dalla paura che alle persone della sua famiglia possa accadere qualcosa di tragico: la sorella può avere un incidente con la moto, la madre può essere investita attraversando la strada, etc,etc. La pervasività della morte dei propri congiunti si spinge fino al timore di una maternità (“ perché fare un figlio se poi dovrà morire?”); si proietta fino nell’aldilà, nel timore che nell’altro mondo non sia possibile incontrare e riunirsi con i propri familiari. E quando il prete le dice che non bisogna pensare al paradiso come ricomposizione della propria famiglia, ma ad una beatitudine che proviene dalla possibilità di godere pienamente ed in eterno della presenza divina, rimane disorientata e delusa.
E’ evidente in questa situazione, come in tutte quelle che si confrontano con l’ineluttabilità ed il mistero della morte, che tutte le strategie di controllo ( che ormai riguardano quasi ogni aspetto della sua vita ) sono destinate al fallimento, perché comunque la morte non si può negare e, come si dice, è sempre in agguato.
De Andrè, cantore d’amore e di morte, ammonisce gli uomini, ricordando loro che “ la morte vi sorveglia” aspettando, come il villano che guarda il suo campo di grano, finché “ non sia maturo per la falce”.
La storia familiare dei pazienti con questo disturbo ci indica una scarsa differenziazione, un funzionamento familiare a mò di clan; non raramente abitano in appartamenti attigui, o svolgono attività che vedono coinvolti “ in società” vari membri della famiglia.
Qualche annotazione sulle ricadute di quanto detto prima nella prassi terapeutica.
Considerare l’angoscia di morte come sottesa ad alcuni quadri psicopatologici quali il cosiddetto disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzato, ipocondria ed altri ci può dare conto del dato, purtroppo assai frequente, del loro decorso cronico.
Mi pare infatti che stanno tramontando alcune posizioni ottimistiche che promettevano la guarigione in 12 o 20 sedute, per l’evidenza di una persistenza del malessere anche se non “codificabile” all’interno di una categoria perché “ subclinico”.
Certo i farmaci sono dotati di una buona efficacia, così come sono d’aiuto varie forme di psicoterapia, ma se guardiamo bene il paziente e ci svincoliamo da uno sguardo “ categoriale”, possiamo scorgere la persistenza in forma più attenuata ( ma non silente) di quel malessere che prima si configurava come un disturbo d’ansia codificato.
Ma possiamo meravigliarci di questi parziali insuccessi se sullo sfondo c’è, appunto, l’angoscia di morte?
E ciò per tanti motivi: “ Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso…Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: “ Scusi, permette? Lei, egregio signore ci ha la morte addosso”. E con quelle due dita protese, la piglia e butta via. Sarebbe magnifica!…Guardi qua, sotto questo baffo, qua vede quel tubero violaceo?…La morte, capisce? E’ passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca e m’ha detto: “ Tienitelo, caro; ripasserò fra otto o dieci mesi!”.( Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca)
L’angoscia di morte, quando ci ha sfiorato da vicino, dunque rimane; e non c’è modo di cacciarla via, come si può fare con un insetto schifoso, perché ti rimane addosso, e se non trova parole per raccontarsi si farà intravedere con i sintomi, le paure, gli incubi, i continui controlli medici che rassicurino che la sentenza non è stata pronunciata.
Ma come ci poniamo, noi terapeuti, di fronte ad essa? A me sembra che l’imparlabilità riguarda tanto il paziente quanto il terapeuta. E’ un’area cieca, perché il divertissement pascaliano non può certo risparmiarci perché siamo terapeuti!
Diventa dunque un tema non elaborato, collusivamente negato da entrambe le parti.
Ma l’angoscia di morte è elaborabile? La nostra attuale cultura ( che a me appare “ tanatofobica”) che dispositivi possiede per affrontarla?
A. Correale auspica che si sviluppi nei terapeuti una funzione, assimilabile alla saggezza dei Greci, intesa come la consapevolezza che l’impatto di certe condizioni esistenziali, ed in primis la stessa finitezza dell’esistenza, è ineludibile e quindi necessita di una accettazione, di un accordo, di un riconoscimento senza tuttavia rimanere schiacciati da questa conoscenza.
Qui mi sembra che il compito di un terapeuta sia al limite delle sue competenze, e forse è andato anche oltre.
U. Galimberti ed altri ci ricordano e ci raccomandano la consulenza filosofica ( Platone è meglio del Prozac, recita un libro che propone questa prospettiva).
Non mi pare sia una soluzione facilmente praticabile, anche se ci ricorda ancora una volta la collocazione incerta della psichiatria e la necessità di un dialogo con tante discipline, in un arco ampio che va dalle neuroscienze allo studio delle religioni.
Certo è che la consapevolezza di avere a che fare, a volte, con dilemmi così radicali dell’esistenza umana, può renderci più modesti e forse più empatici, nel riconoscimento di un comune destino.
Le difficoltà non sono di poca entità quando, sottostanti ai disturbi di ansia, vi sono sentimenti di vergogna e di paura che venga svelato il vero sé difettoso, nascosto dal falso sé che il paziente si è costruito.
E ciò per il semplice motivo che l’identità, una volta costruita, tende a rimanere invariata nel tempo, e non sarà sufficiente indicare al paziente che si è fatta ( con il concorso spesso determinante del mondo familiare) una identità difettosa che gli converrebbe modificare, depurandola dai pregiudizi squalificanti:
Un paziente aveva fatto una brillante carriera ( oltre ad anni di analisi) ma continuava a sognare che, nell’incontro con gli altri, c’era sempre qualcosa che lo faceva sentire in difetto: ora era vestito male, ora non trovava la sua carta d’identità, ora la sua macchina “ perdeva colpi”, oppure non riusciva mai a parcheggiarla.
J. Bowlbj, a proposito dell’angoscia di separazione, ci avvertiva che essa ci accompagna dalla “ culla alla tomba”.
E’ sufficiente che ci ritroviamo in una condizione di sofferenza fisica, o comunque in una condizione che ha messo in crisi la nostra sicurezza, perché questa angoscia si riproponga con tutta la sua forza.
Certamente è importante ed utile per ogni paziente confrontarsi con la propria storia di attaccamento e con la cultura familiare e la sua possibilità di promuovere la differenziazione e l’autonomia.
Ma anche qui non sorprendiamoci se vedremo riaffiorare, malgrado i suoi ed i nostri sforzi, un’angoscia così fondamentale e radicata entro ognuno di noi.
Proviamo infine a tirare le fila del discorso.
L’esperienza clinica ed, in maniera più decisiva,la pratica psicoterapeutica, ci richiamano continuamente alla necessità di dare un senso umano e condivisibile alla sofferenza psicopatologica.
Questa può richiedere, per un nostro primo orientamento e per un eventuale intervento farmacologico, un approccio categoriale.
C’è tuttavia la necessità di oltrepassare tale posizione, che rischia altrimenti di semplificare ed impoverire il nostro incontro con l’altro.
Individuare ed utilizzare “ organizzatori psicopatologici” ci sembra dia una possibilità di mettere ordine alla molteplicità dei dati clinici senza rinunciare a ricercarne il senso.
Nel confronto con i disturbi d’ansia alcuni organizzatori psicopatologici ci sembrano utili: abbiamo individuato come rilevanti l’angoscia di morte, la vergogna e l’angoscia di separazione e di perdita.
Anche se l’utilizzo di questi strumenti concettuali non ci rende né potenti né risolutivi, mi sembra tuttavia che possano allontanarci da alcune aree cieche e rendere l’incontro più autentico e profondo, e forse anche più efficace.
. Palermo Gennaio 2011
Bibliografia
1. A.P.A.: DSM IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali Ed. Masson
2. A. Ballerini: Caduto da una stella G.Fioriti Editore
3. J. Bowlby: Costruzione e rottura dei legami affettivi R. Cortina Editore
4. U: Foscolo: I Sepolcri Edizione Classici U.T.E.T.
5. S. Freud: Considerazioni attuali sulla guerra e la morte Opere Boringhieri V.8°
6. E. Fromm: L’arte di ascoltare Ed. Mondadori
7. U: Galimberti: I miti del nostro tempo Ed. Feltrinelli
8. M.T. Mc Guire e A. Troisi: Psichiatria darwiniana G. Fioriti Editore
9. F. Giberti: Introduzione ai disturbi d’ansia Trattato italiano di Psichiatria a cura di Cassano Ed. Masson
10. Lorenzini e Sassaroli: La mente prigioniera R. Cortina Editore
11. L. Marinoff: Platone è meglio del Prozac Ed. Piemme
12. L. Pirandello: L’uomo dal fiore in bocca Tutte le novelle Ed. Mondadori
13. U. Rabito: Terra matta Einaudi Editore
14. L. Tolstoi: La morte di Ivan Il’ic Ed. L’Espresso
15. Vocabolario della lingua italiana Treccani
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