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La Psicoterapia e la Comunità

Fonte : “ La psicoterapia e la Comunità” di Mario Mulè, intervento alla tavola rotonda di Acitrezza 5-Dicembre-2008

Voglio introdurre il mio intervento ricordando quanto ci raccomandava negli incontri di formazione Armando Bauleo, recentemente scomparso, per tributare un doveroso omaggio alla sua intelligenza, alla sua vitalità, alla sua generosità. Bauleo, di fronte alla persona che incontriamo nell’ambulatorio o nel nostro studio, ci raccomandava di chiederci: “ Di quale comunità questa persona è rappresentante, di quale realtà sociale è ambasciatrice?” Era un invito che riproponeva una condizione ineludibile per gli esseri umani e cioè la presenza in ognuno di noi di dicotomie esistenziali, di contraddizioni inevitabili tra le quali vi è certamente quella delle esigenze tra di loro conflittuali di unicità e di appartenenza. Quanto nella nostra identità è veramente nostro e quanto appartiene alla famiglia ed alla comunità? Il costrutto di Lo Verso sintetizzato nel termine “transpersonale”, i concetti di “ eteronomia” ed “ autonomia” di Diego Napoletani, la dialettica tra l’ipse e l’idem di cui ci parla Paol Ricoeur mi sembra siano alcuni dei contributi più significativi su questo tema. Un tema che non interroga certo solamente gli psichiatri: basti qui ricordare “ la patente” di Pirandello oppure il personaggio della signora Ponza nel “ Cosi’ è se vi pare” che risponde a chi le chiede chi veramente sia che lei è “ colei che gli altri credono”, ma “ per lei stessa nessuna”. In questi drammi Pirandello sembra imporre in maniera radicale l’idem, la necessità di essere come gli altri ci vogliono o ci vedono. Ma se guardiamo ad un’altra opera, ai “Sei personaggi in cerca d’autore”, possiamo vedere l’altra faccia della medaglia e cioè la necessità per ognuno di noi di esprimere, rappresentare, dare parola e corpo alla propria individualità, al proprio dramma personale, anche laddove viene irriso e deformato, come fa la figliastra nei confronti del padre. Si ripropone dunque la dicotomia, l’esistenza di bisogni fondamentali inconciliabili con cui dobbiamo convivere cercando un improbabile equilibrio fra opposti. Ma è necessario attenerci ai nostri ruoli ed ai nostri compiti ( ubbidendo quindi al mandato sociale) ed affrontare questo tema in rapporto al nostro essere psicoterapeuti e quindi della sofferenza e delle patologie che ci provengono dal contesto sociale. Il tema diventa quindi: quali aspetti delle comunità in cui viviamo possono essere patogeni? Con quali apparati tecnici possiamo conoscerli? In quale maniera riconsegnarli alla comunità perché vengano curati non certo solo da noi ma dalla comunità stessa? A questo punto però il percorso diventa difficile, poco esplorato almeno dal versante strettamente clinico. Certo non mancano delle osservazioni di ordine generale come ad es: i contributi freudiani contenuti in opere come “ Psicologia delle masse ed analisi dell’io”. Un contributo importante inoltre mi sembra sia stato quello di E. Fromm che ha descritto alcune patologie del carattere, mettendole in relazione con l’organizzazione sociale del capitalismo americano del dopoguerra: i concetti di alienazione, di carattere mercantile, di deformazione cibernetica, la descrizione dei meccanismi collettivi di fuga nell’autoritarismo o nella ubbidienza da automa credo che mantengano una forte validità. Un tentativo interessante in questo senso può essere quello intrapreso in ambito gruppo-analitico da Lo Verso, Di Maria e loro collaboratori nel loro studio sullo psichismo mafioso. Sono studi complessi, che richiedono un approccio che includa metodiche di ricerca più congeniali ad una istituzione universitaria che alla stanza di terapia, anche se da questa sono venuti spunti ed intuizioni preziose. Torniamo dunque all’osservatorio clinico, che peraltro è quello di cui posso avere esperienza e proviamo a guardare i pazienti nell’ottica suggerita da Bauleo, del paziente come rappresentante, come ambasciatore di una condizione più generale, radicata nel sociale. Da un po’ di anni servizi pubblici e stanze di terapia sono frequentati da persone con diagnosi di disturbo borderline di personalità. Perché sono divenuti cosi’ frequenti? Non credo si tratti solo della conseguenza di una definizione e collocazione più precisa in una categoria, ad opera del DSM, anche se tutto ciò può avervi contribuito. Ha ragione Correale quando sostiene che questo diffondersi della patologia Borderline altro non è se non la condizione estrema di un modo di vivere, un modo di essere che sempre più manca di una capacità di sedimentare “dentro” le esperienze della vita, che diviene allora una continua ricerca di stimolazioni sempre esterne e mai interiorizzate? A proposito di nuovi personaggi ( o di nuove utenze, come si suole dire ) vi racconto brevemente una vignetta. Il figlio di un immigrato nord-africano ricoverato presso un SPDC è venuto a visitare il padre. Passa e ripassa davanti alla statua della Madonna collocata in un angolo del corridoio ostentando vistosi segni di croce: voleva indicare alla comunità che lui non c’entra nulla con il padre, che ormai appartiene a quest’altro mondo, al mondo dei Mazaresi. Ho voluto richiamare questa scena per indicare la sofferenza dei figli degli immigrati, che non riescono né a restare fedeli alla cultura familiare né ad assimilare la nuova cultura se non in modo goffo e posticcio: che lo voglia o no la Lega Nord, questi ragazzi saranno i futuri cittadini e non saranno certamente le classi differenziali che li aiuteranno a trovare la propria identità. Vorrei segnalarvi un’altra situazione paradigmatica molto distante dalla precedente. Qui il paziente è una persona colta ed intelligente, ossessionata quotidianamente da questa domanda: “ Se Dio è morto, se sono crollate anche le istituzioni comunitarie fondamentali, se non possiamo più aderire a ideologie e neanche essere sostenuti da strutture comunitarie fondamentali come la famiglia, allora cosa è lecito e cosa no? Cosa veramente può darci salute e benessere? Come orientarsi nel mondo se non possediamo una bussola?” Il rimando è, implicitamente o esplicitamente, alla società liquida, al crollo di ideologie e istituzioni, all’assenza di regole del gioco, dove giocare è più importante che definire norme. Come il crollo di ideologie ed istituzioni sta influenzando la nostra vita? Ancora un’osservazione. Un paziente che aveva combattuto a Nassiria ( era stato attaccato con il suo convoglio dai guerriglieri, rischiando di morire) è venuto da me per un classico disturbo post-traumatico da stress. Ma ormai sono centinaia di migliaia le persone che vivono in Italia provenienti da aree devastate dalle guerre, che “ hanno visto la morte con gli occhi” nelle loro traversate a bordo di carrette del mare. Saranno questi i futuri pazienti? Potremmo porci altri interrogativi di fronte al fenomeno dei disturbi alimentari o a quello drammatico ma ormai quasi scotomizzato delle dipendenze da alcool, droghe, gioco d’azzardo ed altro. Ma su questo non mi soffermo. Vorrei piuttosto porre un ultimo quesito. Laddove ci troviamo di fronte a sofferenze diffuse, comunitarie appunto, il setting duale o gruppale è quello più funzionale? Possiamo cercare di sperimentare altri strumenti? Gasseau ci proporrà il sociodramma di cui potremo sperimentare la capacità di visualizzare ed elaborare nodi sociali. A Ghibellina, qualche anno fa, abbiamo provato a realizzare un esperimento, a creare un setting di comunità. Lo abbiamo chiamato “ teatro-specchio” perché utilizzava il teatro per consentire alla comunità di specchiarsi, di guardare alle proprie difficoltà come avveniva nel teatro greco. Solo che qui la trama veniva costruita con la partecipazione dei molti, di associazioni e testimoni della comunità e non solo dagli operatori della salute mentale. Il progetto non si è realizzato in modo per noi convincente, ma è rimasto in me il desiderio di provarci ancora. E’ una delle tante domande che attendono risposte e sulle quali mi auguro i gruppi possono provare a produrre un pensiero.

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