La macchina dell’anima
Pubblicato da redazione
Fonte: “La macchina dell’anima” Vito Petruzzellis
Reggio Calabria, 2 giugno 1973
Un antico grande cancello, usurato e sbilenco, che dà in una stradina che si inerpica a mezza collina, superando modeste case del rione Modena, uno strano gruppo di signori e “giovanotti” con un pò di barbe e l’aria attenta e pensosa, che procede discutendo.
A mano a mano che si sale si allarga un cielo terso di giugno, un’arietta frizzante su scorci di panorama verso il mare blu intenso e le coste frastagliate dello stretto di Sicilia; negli occhi ancora immagini di monti, spiagge, imbarchi di traghetti, scie di pescherecci operosi.
E lì, in alto la sagoma dell’edificio centrale verso il quale ci dirigiamo, una costruzione anni ‘30, malandata, di un rosa pallido con i muri scrostati, i tetti a tegole rosse, le inferriate alle finestre. E poi tutt’attorno dei pennoni posticci, lunghi tubi di ferro, lunghe canne, tre, cinque, una decina, forse di più!
Pennoni con ognuno in cima una bandiera rossa a garrire nel vento.
Ci scambiamo con gli altri colleghi del gruppo qualche occhiata interrogativa, con un sorriso che vorrebbe affiorare ma è frenato da una certa inquietudine: una ricorrenza? Una provocazione? Nessuno osa chiedere.
Si arriva sul piazzale antistante la costruzione centrale, il padiglione della Direzione dell’Ospedale, un’aiuola circolare e su un piedistallo, la statua di una madonna. I medici già in servizio all’ospedale descrivono a noi, ultimi arrivati, la disposizione e le caratteristiche dei vari padiglioni: l’”osservazione”, il reparto “agitati”, Il “Mingazzini”, il “Libero”….. Seguo un pò frastornato dall’incalzare delle sensazioni. A tratti voci, grida, oltre le sbarre, che d’improvviso lacerano lo scenario. Nei cortili, delimitati dalle grate, persone nude ricoperte di casacche grigie, lacere, volti sofferenti o atteggiati a sorrisi sdentati, piedi nudi, scarpacce, teste rasate, mani tese a chiedere sigarette.
Sulla destra, un pò in disparte, alcune donne e tra queste una di mezz’età che si nota perchè vestita con abiti civili e con un vistoso nastro rosa intorno ai capelli. Ci viene incontro, mentre le infermiere cercano bonariamente di trattenerla, e con accento emiliano (sorprendente in quel luogo), ci dice: “sapevo che sareste arrivati, adesso la farfalla potrà volare !”.
Impareremo poi a conoscerla come Giusi, tenera e visionaria.
Sul marciapiede laterale un omino mingherlino e ossuto, con una faccia da monaco tibetano, spinge una carriola arruginita. Quando gli siamo più vicini, rivolto proprio a noi, nuovi medici, ci intima di fermarci “non si può passare!” dice perentoriamente e poi di rincalzo, indicando la carriola e puntandoci addosso due occhietti furbi e un sorrisetto sornione: “che cos’è questa?” Ovviamente la nostra risposta abbozzata “carriola” è accolta con una risata di scherno:”una carriola!?..” “Quelle sono carriole!” – dice indicando alcune autovetture parcheggiate nei pressi – “questa è la macchina dell’anima che abbassa il corpo ed innalza l’anima!” E poi prosegue ” quest’anno a Reggio Calabria ci sono stati due miracoli: la Reggina in serie A e il nuovo direttore in manicomio!”
Mi raccontano che tutte quelle bandiere rosse le ha issate lui e che ne ha circa duecento ripiegate in vecchi bauli. E’ ricoverato da moltissimi anni, ormai come “ricoverato lavoratore” e può muoversi liberamente.Un personaggio.Soprannominato papa Rocco per via del suo credo autodefinito “catto-maoista”, critico nei confronti del clero cattolico. Ha conquistato un grande rispetto tra il personale ed i ricoverati per la sua grande dignità e capacità di impegno. Raccontano che negli anni della guerra, quando il manicomio fu in pratica abbondonato a se stesso, papa Rocco fu decisivo nel garantire la sopravvivenza dei ricoverati.
Sarà sempre sorprendente la sua capacità di essere continuamente informato su tutto, sapendone cogliere perfettamente il senso generale. Bastava guardarlo in faccia per capire che aria tirava . Quando proprio buttava male lo si vedeva con il suo tubo di ferro a tracolla, il fazzoletto rosso al collo, silenzioso e scuro in volto, a montare la guardia a passi feroci intorno alla sua statua.
Raccontano anche di un suo “miracolo”.Una volta in occasione di una delle tradizionali visite annuali dell’arcivescovo, per impedirgli la solita plateale contestazione, al grido di “andate via, anime nere!”, papa Rocco venne confinato in uno dei reparti, da dove scagliò la sua maledizione: “farò crollare la statua se mi tenete qui!” Nel corso della cerimonia, non si sa bene come, la statua cadde dal piadistallo e rotolò verso l’arcivescovo. Prestigio alle stelle!
Tempo fa sono riandato, dopo molti anni, a Reggio Calabria verso quel manicomio a mezza collina che adesso non c’è più. Edifici di quel tipo non ce ne sono o forse si son fatti meno riconoscibili. Ho pensato ai frammenti che mi porto dentro, alla dolcezza ed all’amore temerario di Giusi, ai silenzi ed alla forza di papa Rocco, alla sua formidabile macchina dell’anima, alle sue bandiere ripiegate non si sa dove.
Penso a come la “pratica della follia” possa non essere una distanza che allontana ma una occasione per far incontrare e dialogare vicende umane significative.E come possa diventare, sia pur faticosamente, una chiave che aiuta a capire, a trovare diversi ordini di senso, nuovi modi per riconoscersi e allearsi e procedere.
Vito Petruzzellis
Psichiatra – Cefalù (Palermo)
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