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Il corpo in psicoterapia

Fonte: ” Il corpo in psicoterapia” Mario Mulè (IV Convegno Allievi COIRAG )

Anche se nessuno di noi può averne ricordo, è pur vero che il nostro primo incontro con il mondo è stato annunciato dal grido e dal pianto.

Ed ancora per molto tempo siamo rimasti senza parola, ma non certamente senza il bisogno e la capacità di comunicare quelle intense emozioni che vivono in ogni bambino. Non avevamo la parola, ma c’era il corpo: braccia da protendere, gambe per sgambettare e poi il riso, il pianto, l’urlo. Si dice che il grido che si fa canto, ma anche il movimento del corpo che diventa danza, abbiano radunato gli uomini quando ancora il logos, il discorso altro non era che un incerto balbettio.

Ecco cosa dice al riguardo E. Saverino: ” …l’intera vita dei popoli più antichi si raccoglie attorno alla rievocazione del grido, cioè attorno al canto; e il canto avvolge i viventi ben più strettamente del calore dei fuochi attorno a cui essi stanno.”

Ma se è vero che il linguaggio del corpo si impone sin dall’inizio e non smette mai di inserirsi, magari clandestinamente, nei nostri scambi con il mondo, dobbiamo anche considerare che cultura e religioni nel tempo gli hanno assegnato spazio e valore assai diversi.

Molti di noi forse ricorderanno la poesia di Saffo:

” A me pare uguale agli dei

chi a te vicino cosi’ dolce

suono ascolta, mentre tu parli

e ridi amorosamente. Subito

a me il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda, e la voce

si perde sulla lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue nelle orecchie

e tutta in sudore e tremante

come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

a me rapita di mente.

Qui il corpo è ancora protagonista, sentimenti, pensieri e vissuti corporei sono ancora strettamente intrecciati, anzi è proprio il corpo che impone il suo linguaggio: il rombo del sangue nelle orecchie, il fuoco che affiora sulla pelle e poi, tutta in sudore e tremante come erba patita, scolora, impallidisce.

Proviamo ad accostare a Saffo il grande poeta medievale, il Dante del dolce stil novo:

” Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta…”

Cosi’ inizia il famoso sonetto…

Dunque gentile, onesta e poi, più avanti, “d’umiltà vestuta”

E quando spunta il corpo e ci dice delle labbra di Beatrice, non c’è in esse nulla di carnale:

” e par che de la sua labbia si muova

uno spirito soave pien d’amore

che va dicendo all’anima: sospira.”

Il corpo, degradato da Platone a ” tomba dell’anima”, per i lunghi secoli del Medioevo resterà ricettacolo di impurità, guardato con sospetto perché abitato dal Diavolo; un corpo da sorvegliare, da reprimere e da punire.

Se corre obbligo ad ogni uomo di sottomettere la carne, è soprattutto la donna, se vuole essere degna di rispetto, che deve mostrarsi, come la Beatrice di Dante, quasi incorporea, solo spirito gentile. Non dobbiamo meravigliarci allora se le donne di Freud irrompono sulla scena con i sintomi drammatici, sfacciatamente corporei, dell’isteria.

E’ come se l’uomo del mondo occidentale si sia comportato per secoli come un bambino che spinge sott’acqua e trattiene il suo pallone, che appena può, schizza in alto e riaffiora alla superficie.

Ma lasciamo le metafore e proviamo ad utilizzare il nostro linguaggio abituale; ecco cosa ci dice G. Benedetti: ” Esiste nella nostra psiche un bisogno che è potente come quelli del piacere e della realtà scoperti da Freud.

Questo terzo bisogno o principio è il bisogno di esprimere a se stesso, esteriorizzare, drammatizzare, riflettere, articolare nella coscienza, nell’immagine, nella sequela della vita vissuta ciò che nell’inconscio è ancora solo un potenziale…

Un lato debole della persona vuole essere ugualmente vissuto…

L’urgenza che io vado formulando è il bisogno di esistenza…che contrasta quelle altre forze che tendono alla condanna di parti indelebili di noi alla non esistenza…”

E Freud, nel caso clinico di Dora, cosi’ argomenta:

” Quando mi posi il compito di portare alla luce ciò che gli uomini nascondono…ritenevo quel compito più difficile di quanto in realtà non sia.

Chi ha occhi per vedere ed orecchie per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare alcun segreto.

Chi tace con le labbra chiacchiera con le dita, si tradisce attraverso tutti i pori…”

Proviamo a sintetizzare quanto detto in questa breve introduzione:

• Corpo, emozioni, sentimenti sono legati ed intrecciati strettamente tra loro

• Il tentativo di estromettere il corpo, come del resto la repressione dei sentimenti è destinato a fallire: c’è, prima o poi, ” il ritorno del rimosso”, per citare un famoso principio postulato da Freud

• L’intima connessione originaria tra emozioni, sentimenti e corpo fa si’ che quando la parola tace, quando il logos è impedito, è il corpo che si fa carico di comunicare, di trasmettere il messaggio a volte in modo esplicito altre volte in modo criptico ed allusivo: in altre parole il corpo si manifesta attraverso il linguaggio più o meno cifrato dei sintomi.

Il sintomo ha il potere di imporsi, costringe chi lo vive ma anche chi vi sta di fronte a vederlo, rompe il silenzio ed obbliga l’uno e l’altro a fare i conti con lui.

E diversa può essere la sua sorte: può essere represso o curato medicalizzandolo e quindi in un certo senso messo a tacere oppure può essere ascoltato, per decifrarne il messaggio, per tentare di comprenderlo, nel significato etimologico della parola comprendere che significa prenderlo insieme o meglio – come recita il dizionario della lingua italiana della Treccani – ” accogliere spiritualmente in sé “.

Penso che siamo tutti d’accordo nel riconoscere in questa funzione d’ascolto un aspetto fondamentale di ogni psicoterapia e di considerare l’arte della psicoterapia un affinamento dell’orecchio, un esercizio che consenta di decifrare il messaggio, compreso quello corporeo, che ci arriva dai nostri pazienti.

Il linguaggio del corpo ha connotazioni diverse nei vari quadri clinici. Sembra cioè di vedere che le varie forme della psicopatologia possono usare in maniera differente il corpo nel tentativo di esprimersi.

Riuscire a decodificare i vari linguaggi può quindi risultare utile per cogliere messaggi profondi che ancora non trovano parola. Perciò credo che valga la pena di accostarsi ad alcuni quadri clinici nel tentativo di coglierne le specifiche modalità di comunicazione corporea.

Per inciso, clinica è un termine che trae origine dal gesto di chinarsi, di avvicinarsi a chi è sdraiato e sofferente per ” auscultarlo”, per porre l’orecchio ( come facevano i vecchi clinici ) sul torace del malato per sentirne il respiro o i battiti cardiaci.

La storia della psicoterapia può suggerire di addentrarci nell’area clinica iniziando dai pazienti isterici, per un doveroso tributo ad Anna O. ed alle sue compagne di sventura.

Oggi nei manuali di Psichiatria l’isteria non si trova più, il quadro clinico come sapete è stato disarticolato in tanti pezzi che sono in pratica i disturbi dissociativi, i disturbi di conversione ed i disturbi di somatizzazione.

Eppure è possibile ancora oggi ritrovare insieme questi vari linguaggi, a dispetto della psichiatria dominante nord-americana.

Mariella è una donna di 45 anni, sposata, due figli, casalinga.

Ha dedicato la sua vita al marito, favorendone la carriera e mettendosi totalmente al suo servizio. E’ subito evidente che si tratte di una accoppiata classica: lui narcisista, lei dipendente.

Vengono da me perché Mariella ha ripresentato episodi dissociativi, già evidenziati in passato ed hanno paura: temono infatti che possa mettere in atto, in questo stato di trance seguito da completa amnesia, azioni tragiche e delittuose.

Insomma temono una replica del caso Franzoni. Mi raccontano infatti che qualche anno fa ha avvelenato un cagnolino, che pure sembrava amare moltissimo.

Il marito dice di temere per i propri figli, mi presenta un fascio di ricette ( neurolettici, antidepressivi, ansiolitici, in varie ed eccentriche combinazioni) dichiarando che purtroppo non stanno funzionando.

Dopo pochi incontri diviene chiaro che tutti questi episodi hanno a che fare con il marito: ha avvelenato il cane perché l’adorato marito non lo sopportava, egli, tornando a casa, era insofferente e lei non reggeva questa condizione.

Anche adesso i suoi comportamenti dissociati sono diretti a lui, ma hanno cambiato significato: ora straccia i suoi appunti, danneggia oggetti che gli appartengono.

Mi confessa, non senza difficoltà, che ha scoperto che il marito la tradiva e soprattutto è costretta a constatare che non ha alcuna considerazione per lei. Un giorno arriva con la bocca serrata: non può parlare e vengo a sapere che è muta da alcuni giorni, risponde soltanto con qualche gesto ma non pronuncia parola.

Le metto un foglio davanti, le parlo e le chiedo di rispondermi scrivendo qualcosa. Lei accetta e con una grafia ” a piede di gallina” comincia a parlare della sua disperazione perché sente che sta andando in crisi il rapporto coniugale.

Un giorno le chiedo: ” Mariella, ma se lei ha deciso di non rivolgere la parola a suo marito, perché farlo anche con i suoi figli e con me ?”

La volta successiva ritorna avendo ripreso a parlare. E’ comparso tuttavia un nuovo sintomo: vomita regolarmente, ma ” spontaneamente” ogni volta che mangia.

Dimagrisce a vista d’occhio, il marito si dà subito da fare di fronte ad una patologia che, gli sembra evidente, riguarda il corpo e quindi radiografie, gastroscopie, tac: nulla di organico. C’è un piccolo particolare. Mariella vomita solo quando pranza o cena con lui. Quando lui non c’è può tenere il cibo. Ma ormai Mariella ha acquistato capacità di parola e costruito con me una buona alleanza: può perciò raccontarsi ed affrontare il grave lutto di un rapporto idealizzato che era tutta la sua vita e che si trova costretta a riguardare come illusione e fallimento.

La storia di Mariella ci ricorda alcune intuizioni che appartengono alla psichiatria ed alla psicoanalisi.

Ci fa vedere che il linguaggio dell’isterica è il linguaggio dei subalterni, che non vivono una condizione relazionale e sociale che dia loro il diritto di parola.

Ci riporta al 3° principio di cui parla Benedetti: c’è qualcosa che vuole esprimersi, venire fuori, ma non può ancora diventare parola: ecco che allora il sintomo ed il corpo si offrono per fornire metafore che in questo caso, a ben guardare, si lasciano leggere senza troppe difficoltà.

Vale cioè per i sintomi di marca isterica quello che a volte succede con certi sogni che ” si leggono da sé “, non hanno bisogno di un faticoso lavoro di ricognizione per essere interpretati.

Non si può dire la stessa cosa per i disturbi del comportamento alimentare.

Sono ormai molti anni che incontro persone con questi disturbi e debbo confessare che spesso rimango perplesso sul messaggio che arriva attraverso lo scenario del corpo.

Quello che mi sembra di capire è che di volta in volta ci parla di sentimenti e di difficoltà diversi.

Nella lettura classica che ne hanno fatto Binswanger ed altri, il sintomo anoressico ad esempio sembrava alludere alla necessità di una invisibilità: se il vissuto di una ragazza è quello di una inconsistenza del suo essere, cosi’ rarefatto ed evanescente da non potere reggere l’impatto con il mondo, allora può cercare come Ellen West la trasparenza, il non esserci con il corpo sottraendosi in tal modo ad un incontro impossibile.

In queste condizioni di marca psicotica sembra si possa rintracciare quello che Correale chiama sentimento di infinitezza, di infinita distanza dagli altri e dal mondo, dove la distanza dagli oggetti indica non soltanto l’irraggiungibilità, ma anche la loro eccessiva consistenza e pericolosità.

Nella mia esperienza non mi sembra di cogliere questo tipo di messaggio, essendo i disturbi alimentari presenti in un’ampia fascia della popolazione, molto più larga dell’area psicotica.

Se ripenso alle persone che ho incontrato, mi sembra di potere cogliere significati diversi:

una ragazza sembra volere fermarsi alle soglie dell’adolescenza che sente al di là delle proprie possibilità,

un’altra sembra esprimere il classico rifiuto della madre e della famiglia,

un altro ancora sembra che controllando corpo e cibo cerchi di recuperare un senso di padronanza di sé e del mondo che gli sfugge o lo sovrasta.

O ancora, può leggersi nel corpo martoriato una denuncia, un atto di accusa, come a volere dire esibendo le membra scheletriche: ” Guardate come mi avete ridotto, cosa patisco per colpa vostra.”

Ma è vero anche che nel tempo il senso originario del sintomo viene smarrito, in una ripetitività ormai vuota di senso. Può succedere cioè quello che avviene con le tossicodipendenze in cui nel tempo non si riesce più a vedere il dramma ed il messaggio originario.

Anche perché il corpo si prende la sua rivincita e le modificazioni corporee indotte da una intenzionalità più o meno consapevole impongono la propria legge: la malnutrizione forza ed altera i meccanismi fisiologici ed alla fine saranno queste alterazioni che manterranno attivo un circuito ripetitivo e cieco.

A questo proposito è opportuno ricordare il famoso esperimento di Baltimora: 36 ragazzi universitari, selezionati da un campione originario di 100 volontari da cui erano stati esclusi quanti avevano problematiche metaboliche o psichiatriche, anche solo nell’anamnesi familiare, furono sottoposti a restrizione alimentare.

Quando il peso corporeo scese del 15% sotto quello originario, comparvero in modo assai evidente quasi tutti i sintomi dell’anoressia e della bulimia.

Nella mia attuale pratica clinica sono soprattutto i disturbi di panico e più in generale alcuni disturbi d’ansia che mettono in scena il malessere nello spazio corporeo.

Qui il corpo diventa minaccioso, che si tratti di morire o di impazzire, il dramma viene vissuto come una catastrofe già in atto nelle crisi di panico, ma che non cessa di occupare la mente del paziente anche dopo ; perché quando non è attuale rimane comunque incombente ed ineluttabile come una morte annunciata.

I cognitivi ci hanno insegnato che queste persone entrano in circoli viziosi che comprendono un monitoraggio esasperato dei segnali corporei anche dei più innocenti, la lettura scorretta di questi segnali che vengono considerati segnali di un pericolo già in atto, attivazione dei meccanismi fisiologici di una intensa paura, vissuto catastrofico.

Da qui si riparte con un’ulteriore esasperazione del monitoraggio, aggiungendo magari ulteriori meccanismi ( evitamento, atteggiamenti fobici, bisogno di presenze rassicuranti ) che peggiorano ulteriormente la condizione clinica, esitando a volte in situazioni di grave limitazione della libertà e della vita.

Credo sia importante tenere a mente questi meccanismi, cosi’ come altre indicazioni che provengono da questo approccio, in particolare l’attenzione per la storia familiare ove c’è stato un apprendimento che ha portato a delle strutture cognitive disfunzionali del tipo: ” io sono fragile, il mondo è pericoloso”.

Anche sul piano terapeutico gli esercizi cosiddetti ABC con i quali si tenta una ristrutturazione cognitiva, possono essere utili e integrabili con altri approcci teorico-clinici. Penso infatti che sia corretto porsi nei confronti delle teorie nel modo che Lo Verso ci ha ripetutamente indicato nel suo lavoro di riflessione sulle questioni epistemologiche implicate nel lavoro clinico: la teoria come strumento e non come verità, come un attrezzo che va valutato nel suo valore empirico, pratico. ” Non c’è cosa più pratica di una buona teoria”.

Se un approccio come quello sopra indicato può risultare di una certa utilità ed efficacia, resta ancora da spiegare qualcosa di più profondo, che renda maggiormente conto dei vissuti catastrofici.

Nella mia esperienza ho incontrato due condizioni che mi sono sembrate significative.

La prima è l’esistenza nella storia personale di esperienze di perdita di persone che avevano un posto importante nella vita del paziente.

Di solito si tratta di perdite traumatiche, subite in una condizione di assoluta impotenza, per esempio un suicidio o una morte per omicidio o per incidente automobilistico.

Queste esperienze traumatiche non solo si sono impresse nella memoria ma sembra che abbiano dato all’esistenza un significato, una qualità che per la maggior parte di noi resta sullo sfondo: cioè l’angoscia della perdita, la minaccia della fine, della morte alla quale non c’è scampo.

L’altra condizione clinica molto più frequente nasconde un forte senso di colpa, da qualcuno definito senso di colpa del sopravvissuto.

Qui una lettura gruppoanolitica ci viene in soccorso, perché ci consente di capire l’enorme difficoltà della trasgressione, l’angoscia e la paura che provengono da un’eresia, da un volere essere altri rispetto al mondo familiare, a volte a volersi mettere contro di esso, denunciandone le incongruenze e le contraddizioni.

Non è raro, in questi casi, che il disturbo insorga quando si è riusciti a conquistare delle mete che sanciscono e rendono ormai evidenti l’avvenuto distacco e la rivincita nei confronti della propria famiglia.

E’ stato per me sorprendente ritrovare in questi disturbi quasi una illustrazione di quanto C. Pontati dice a proposito della psicopatologia definibile come incapacità di allargare gli spazi di vita, di uscire da “nicchie etologiche” già pensate per entrare in altre realtà che richiedono, prima di essere abitate, di risultare pensabili.

I disturbi di ansia ci parlano continuamente di spazi inabitabili, di zone troppo chiuse ed asfissianti ( claustrofobia ) e di aree inabitabili e disorientanti ( agorafobia ), di vertigini, di impossibilità di lasciare percorsi familiari, di bisogni di attaccamento al ” compagno fobico”, etc.

La catastrofe della psicosi schizofrenica a volte ci viene svelata, nel momento del suo apparire come inquietante perplessità, da un sintomo che i vecchi clinici hanno chiamato ” il segno dello specchio”.

Il paziente avverte che in lui si sta verificando una trasformazione, sente che lui ( ma anche il mondo ) non è più quello di prima e trascorre lunghe ore davanti allo specchio a scrutarsi, nel tentativo che continuamente fallisce di riconoscersi.

Più avanti lo sfaldarsi dell’identità psicofisica, il suo dissolversi lento o cataclismatico non potrà fare a meno di investire il vissuto somatico.

La gamma dei sintomi denominati “depersonalizzazione somatopsichica” può essere quanto mai ampia: si può trattare di ineffabili sensazioni di estraneamento, di artificiosità del proprio vissuto corporeo ma prima o poi faranno la comparsa le esperienze di influenzamento e spossessamento corporeo.

Cosi’ come ha perduto il senso di esserci come soggetto dotato di pensiero e volontà, può perdere il senso di padronanza e di esistenza del proprio sé corporeo, ormai esposto alle più inquietanti influenze di un mondo irraggiungibile e minaccioso.

Se il processo psicotico non viene fermato, si potrà assistere a quei vissuti assurdi che il giudice Schreber chiamava ” miracoli”.

Il caso Schreber, come sapete, utilizzato da Freud per illustrare le sue tesi sulle psicosi che mettevano in primo piano l’omosessualità e poi ripreso da altri autori in chiave familiare, si presta molto per guardare dentro queste esperienze.

Al di là della bizzarria e dell’assurdità è possibile vedere come accanto al tema dello sgretolamento dell’unità della persona si faccia strada un vissuto di impurità e di colpa, cui spesso si aggiunge ” il maleficio”.

Ma tutto questo non ci sorprende, se consideriamo che nella schizofrenia non soltanto va perduta l’abituale relazione con il mondo ma c’è anche un sentire dentro di sé qualcosa di sbagliato o meglio di mortifero che può assumere le connotazioni della colpa.

Un mio paziente paranoico, che cercava di sfuggire al malefico dominio del mondo su di lui, un giorno mi ha portato questo sogno:

si trovava in una piazzetta di Palermo. Nelle associazioni era un luogo che stava tra l’atrio della biblioteca nazionale e la casa di Cagliostro.

Egli stava caricando dei libri su un camion da portare a casa. In effetti in quel periodo studiava ore ed ore per scoprire ed impadronirsi come Cagliostro di poteri straordinari e di influenzamento, nel tentativo di ribaltare la sensazione di essere sottoposto ad influenze malefiche.

Ad un tratto, girandosi, si accorgeva che non c’era più il tir carico di libri, ma una carriola sgangherata che scricchiolava sotto il peso dei grossi tomi.

Un calcio alla carriola ci informava di quell’odio di sé, per un sé ormai carriola scricchiolante, di cui ci parla Benedetti.

Lo stesso paziente,all’esordio della sintomatologia, a lungo aveva accusato strane sensazioni ( stiramenti, scosse elettriche, crampi ) al basso ventre ed ai genitali. Più tardi diventerà accanito scrittore di pseudo romanzi a tema storico-filosofico, che avranno tutti lo stesso tema: accurate indagini per svelare l’esistenza di una potentissima sorgente del male, che si annida e si camuffa sotto le vesti più insospettabili, ad esempio nella stessa chiesa cattolica e che inesorabilmente dirige le sorti del mondo.

Dunque un sé carriola sgangherata, carica di libri,ad indicare un sé psico-corporeo inconsistente ed al contempo un mondo abitato e dominato da forze aliene e maligne ci costringono a considerare che l’esperienza dell’uomo, sano o malato, il sentimento della propria identità è necessariamente corporea e psichica, in un rapporto di connessione reciproca e di impregnazione inestricabile.

Ma connessioni ed impregnazioni ci legano al mondo, c’è sempre un essere nel mondo, come ci ha insegnato la lezione fenomenologia ed antropofenomenologica.

Ci sono tuttavia condizioni psicotiche ” pauci sintomatiche” in cui l’esperienza psicotica non è stata straripante, che manifestano aspetti essenziali del malessere senza ricorrere ai deliri ed alle allucinazioni. A volte queste condizioni trovano nel corpo lo scenario più naturale: una paziente mi racconta che è costrette ogni giorno a praticarsi per ore dei massaggi, di spalmarsi creme vitalizzanti sul corpo e sul viso. Il suo terrore, un terrore che non le lascia tregua e la costringe a queste pratiche clandestine per quasi tutta la notte, è di scoprire che il suo viso si possa raggrinzire, che possa deformarsi solcato da profonde rughe, che possa deteriorarsi.

In altre parole è sul corpo che il processo dissolutivo ha trovato il modo di esprimersi, lasciandole tuttavia un rimedio illusorio a cui tenacemente si è aggrappata che le consenta di contrastarlo, strenuamente, con creme e massaggi.

Ancora due parole sul vissuto corporeo in un’altra condizione clinica, la depressione grave, quella che i vecchi clinici chiamavano melanconia.

Le riflessioni ormai classiche degli psicopatologi collocano il vissuto corporeo del depresso dentro le profonde alterazioni che qui subiscono la temporalità e la spazialità. Essendo ormai perduta ogni spinta in avanti, mancando la possibilità di uno ” slancio” verso il futuro, il corpo diventa pesante, zavorra insopportabile, un corpo che ” io trascino” ma, contemporaneamente, il corpo che ” io sono”. La perduta capacità di ” pro-gettarsi”, di slanciarsi in avanti, di incontrare il mondo si riflettono e si manifestano in questo gravame, in questa pesantezza, rallentamento, a volte una quasi immobilità.

Un paziente, tentando di descrivere quello che gli succedeva, diceva che giorno dopo giorno, sempre più pesante indurito immobile, come nel racconto di Kafka ” La Metamorfosi” in cui il protagonista si sveglia una mattina e scopre di essere diventato uno scarafaggio, allo stesso modo un giorno svegliandosi aveva sentito di essere ormai una statua di pietra, un essere pietrificato ormai privo di vita.

La lotta contro la morte sappiamo che diventa in effetti l’impegno fondamentale del paziente e del terapeuta.

Non voglio andare oltre e quindi mi fermo a questo punto.Sono consapevole della parzialità con cui ho sviluppato il tema che voi avete proposto ed anche della soggettività di questo contributo che attinge non solo alla letteratura ma soprattutto all’esperienza personale.

Vorrei finire richiamando un episodio aneddotico su Ulisse poco noto ed in apparenza poco eroico, ripreso da Hans Kout con l’intento di contrapporlo al mito di Edipo che egli voleva ridimensionare.

Si narra che quando gli Achei si recarono ad Itaca per arruolare Ulisse per la guerra di Troia, egli, che aveva un figlio piccolo da crescere, si finse pazzo e si fece trovare, se ricordo bene, mentre arava i campi con un aratro girato al contrario tirato da una coppia di buoi.

Gli Achei, per sventare il trucco, misero davanti ai buoi il piccolo Telemaco. Ulisse se ne accorse e prontamente impose ai buoi un giro largo, salvando suo figlio.

Kout riporta questo aneddoto per indicare un’istanza che non è nè repressiva né invidiosa, che si pone al servizio della vita e della crescita del figlio. Un’istanza che potremmo chiamare semplicemente paterna.

Vi sono grato per avermi dato oggi la possibilità in qualche misura di porla in essere.

Bibliografia

G. Benedetti: ” Paziente ed analista nella psicoterapia della psicosi”

Feltrinelli 1979

B. Callieri: ” Le stanze vuote dell’esistenza malinconica”

L’Altro. Anno IX n°3 2006

A. Correale: ” Area traumatica e campo istituzionale”

Borla 2006

Freud: ” Il caso Dora”- Opere Bollati Boringhieri

U. Galimberti: “Il corpo” Feltrinelli 2002

Lorenzini e Sassaroli: ” La mente prigioniera”

Raffaello Cortina Editore 2000

Lo Verso: “Le relazioni soggettuali” Bollati Boringhieri 1994

C. Moscatello: ” Trasformazioni del vissuto somatico nella schizofrenia”

in Psicopatologia della schizofrenia, a cura di Rossi Monti

e Stanghellini Raffaello Cortina 1999

C. Pontalti: ” Persone e gruppi: il lavoro ambulatoriale nella psichiatria

Pubblica” Gruppi IV 2002

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