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Etica e Psicoterapia: paradosso o vincolo?

Fonte: “Etica e Psicoterapia paradosso o vincolo? un percorso per la clinica ” Corrado Pontalti

1. Forse non è a tutti noto che del Giuramento di Ippocrate vi sono due versioni: Giuramento antico e Giuramento moderno. La differenza più rilevante appare nelle prime righe dei testi che riporto. Giuramento antico: “Giuro, per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per gli dei tutti e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto … ”. Giuramento moderno: “Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento, di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale”. Il Giuramento di Ippocrate è da sempre posto come fondamento e bussola delle professioni sanitarie, quindi deve intrigare anche gli psicologi clinici e gli psicoterapeuti. Nelle due versioni vi è una differenza radicale. Il giuramento antico pone il medico in dipendenza e testimonianza della divinità, introduce il vincolo comunitario nella sua forma più archetipica; ogni atto medico discende da tale vincolo. Fonda quindi un’antropologia, quale rappresentazione di sé e del paziente, permeata di coscienza etica, intesa come consapevolezza di essere un mediatore tra gli dei e la sofferenza umana. La trasgressione del giuramento è quindi interna alla coscienza personale. Il male, citando Fernando Savater (1995), è “quanto di me è improprio”. Il giuramento moderno non pone vincoli <sacri>, ma fonda un’antropologia della responsabilità professionale quale portato di competenza individuale di fronte alla scienza, alla cultura, alla società. La trasgressione è definita dalla Legge. Il male è “ciò che può essere sanzionato da una comunità di appartenenza”. Appare evidente come questo scenario si ancori alla Deontologia. Siamo quindi, nella nostra epoca, obbligati a studiare la continua tensione dialettica tra la coscienza etica, quale fondazione dell’Essere, e la coscienza deontologica, quale fondazione dell’Operare. Accenno qui ad uno dei pochi punti non controversi nel pensiero dei filosofi: la distinzione tra ciò che è bene in senso strumentale e ciò che è bene o ha valore in sé, senza riguardo ai suoi risultati (Leszek Kolakowski, 1978). La deontologia è il dominio di ciò che è bene in senso strumentale, l’etica è il dominio di ciò che ha valore in sé. La società istituzionale (Stato, Ordini Professionali) sa come valutare, sia pure con continui aggiustamenti normativi, il bene strumentale e le procedure per realizzarlo; di qui i Codici Deontologici che hanno vincolo di norma per gli iscritti . E’ impossibile, proprio per le riflessioni sopra argomentate, proporre Codici Etici. E’ tuttavia interessante notare che i cittadini, vale a dire la società civile, si aspettano dai professionisti, tutti i professionisti, il rispetto di un codice etico di cui essi hanno sensibilità precisa, di cui vorrebbero l’adesione ma che non sanno dove reperirlo come matrice antropologica condivisa e difesa (la famosa chiamata degli dei a testimoni!). La frase tipica che segnala questo iato è: “Ho trovato un professionista disponibile, gentile, che mi ascolta con competenza”. Il tutto espresso con quella meraviglia che indica un evento in sé ovvio, quasi banale, ma inaspettato. Ci troviamo quindi confrontati con la chiara consapevolezza che il codice etico è significato da una eccedenza di senso rispetto al codice deontologico, con la differenza che sembra legittimo aspettarsi la correttezza deontologica ma non la coscienza etica. Infatti, l’aumento esponenziale delle cause per malpractice si fonda su errori deontologici anche se spesso segnalerebbero la percezione dell’assenza di fondazione etica dell’atto medico. Ribadisco che intendo per atto medico anche l’atto psicologico-psicoterapeutico. L’eccedenza di senso rimanda alla semantica del dono e qui sta quello che definisco irriducibile paradosso. Numerose culture umane in varie epoche hanno fondato sullo scambio del dono il patto sociale fondativo della comunità. La ritualizzazione sacrale del dono era custodita come il bene unico capace di offrire identità alla comunità stessa (Godbout, 1992). Nell’attuale formalizzazione dei patti sociali il dono è privo di significazione collettiva e relegato nella sfera privata dei sentimenti . Ne consegue che non possediamo alcun codice condiviso per promuovere la coscienza etica della medicina o per sanzionarne le difettualità. In altre parole non è possibile costruire oggi un codice etico rispetto al quale verificare la competenza professionale e ogni singolo professionista è solo di fronte a questi dilemmi con una pressione fortissima a garantire il minimo deontologico e non il massimo etico. Domanda che pongo al termine di queste riflessioni: “La nostra mission, di psicologi e psichiatri, può esister solo come riferimento a ciò che è bene in senso strumentale o risulta fortemente indebolita dal non ancorarsi a ciò che è bene o ha valore in sé?” Cito nuovamente Savater(op.cit.,1995): “E’ il riconoscimento di ciò che è umano da parte dell’umano quello che fa di noi esseri morali e ogni riconoscimento implica reciprocità non come risultato ma come impostazione. I valori etici ritornano, ritornano sempre sulla stessa cosa: il riconoscimento della nostra umanità in quella dell’altro, la somiglianza essenziale di condivisioni di fronte alla disparità di situazioni e di atteggiamenti.” 2. Etica ed Epistemologia Riprendo l’interrogativo precedente. Il campo epistemologico e procedurale delle scienze psicologico-psichiatriche è definito dalle vicissitudini degli esseri umani che si rivolgono a noi. Detto così sembro banale e semplicistico, ma, comunque ci piaccia sofisticare il discorso, <l’oggetto di fronte a noi> non sono che vicissitudini dolorose dell’esistere. Le vicende della sofferenza umana possono inquietare le singole persone e/o le comunità di appartenenza. Tale inquietudine si declina secondo due registri possibili. Possono essere comprensibili secondo codici consensuali della comunità (sia essa comunità familiare o sociale) e di conseguenza non sono percepiti come patologici. Possono configurarsi come dissonanti e carichi d’inquietudine e sono letti, quindi, come disgreganti il benessere personale e comunitario (Piero Coppo, 2005). Questo significante che crea disordine e lacerazione, organizza i tanti lemmi che vanno a definire il mandato socio-antropologico di istituzioni specializzate, dagli sciamani ai curanderi, dalle magiarre fino agli psichiatri, psicologi, psicoterapeuti. I lemmi sono così diversi e così uguali: possessione, fattura, estasi, malattia, sindrome, disturbo, conflitto intrapsichico, omeostasi rigida, narcisismo, triangolazioni, Edipo, in un elenco che riempirebbe molte pagine. Le istituzioni specializzate utilizzano tutte propri linguaggi connotativi per rappresentare fenomeni che non sono ontologicamente differenziabili ma reificazioni semantiche di quella unica realtà esperienziale che sopra ho argomentato. Rilevare fenomeni e nominarli è impresa complessa, possibile solamente se ancorata a forti presupposizioni filosofiche e metodologiche che possano continuamente essere questionate e trasformate secondo le caratteristiche storiche, antropologiche, sociali di una data epoca e di una data cultura. Entro questa cornice si configura il vero paradosso tra etica e deontologia e pone la coscienza etica come vincolo di efficacia . La proposizione forte che desidero esplorare nel presente lavoro, è la seguente: è possibile il nostro lavoro, che è sul confine del perturbante personale e comunitario, senza l’ostensibilità sociale della nostra personale concezione filosofica sulla <natura> dei nostri interlocutori e della relazione con loro? Perchè parlo di <ostensibilità sociale>? Il nodo maggiormente intrigante nelle coordinate epistemologiche e procedurali (“tecniche”) del nostro lavoro è nello iato, a volte radicale, tra le affermazioni di principio e le operazioni concrete che sono messe in atto. È solo l’assunzione sociale delle contraddizioni che può permettere confronti e dialettiche euristicamente rilevanti (Giacomo Di Marco, 2006). Queste contraddizioni permeano in modo subdolo e spesso non rilevabile vari piani dell’operare: a livello macrosociale i Sistemi Organizzati di Cura, a livello microsociale la miriade dei nostri raggruppamenti associativi, a livello del singolo professionista la capacità di essere risolutore radicale di problematiche (Franco Fasolo, 2005). La seconda parte dell’articolo dettaglierà le situazioni qui indicate. Possiamo quindi proporre una prima sintesi. La posizione etica è garantita dalla coerenza tra l’impostazione filosofica e la costruzione e gestione dei dispositivi terapeutici. Un esempio di questa coerenza è rilevabile, su una scena comunitaria, dai dispositivi sciamanici (Roberto Beneduce, et all., 2005). Nella cultura dei nostri paradigmi teoretici e procedure operazionali questa coerenza non è rilevabile ed è strettamente relegata nella sfera della coscienza privata. Traguardiamo altre coerenze e sanzioniamo altre contraddizioni, molto più tribali e/o istituzionali. L’identità professionale non è vincolata ad una filosofia, ma ad un paradigma: “sono – non sono –non sei … uno psicoanalista, un cognitivista, un sistemico, un relazionale ….. e così via.” Ognuna di queste organizzazioni, fondate su comuni approcci teoretici, su pratiche in qualche modo accomunanti, su vincoli di appartenenza, ha i suoi codici che vincolano piuttosto alla propria cultura comunitaria che al continuo interrogarsi sul senso dell’esperienza umana nell’essere persona e nell’essere membro di una gruppalità familiare e sociale. 3. Filosofia, Etica, Clinica: una sfida sempre più esplicita. Scrive Pier Aldo Rovatti (2006): “Una nuova alleanza con la filosofia servirebbe agli psicologi per cominciare a ridiscutere le proprie assunzioni di pensiero, e dunque per riaprire l’orizzonte critico della disciplina mettendo di nuovo al centro la questione del soggetto”. E’ tanto vero questo invito proposto da un filosofo che da alcuni anni un gruppo di studiosi di tutto il mondo si riconosce e collabora alla rivista Philosophy, Psychiatry & Psychology. Il topos accomunante, sempre tenuto in primo piano, è esattamente quello di sostanziare il vincolo etico dell’operare. Mi permetto di indicare tre testi che sono la summa sinottica di queste problematiche, quale crocevia fondante nuovi e radicali interrogativi: “What can philosophy do for psychiatry?” di K.W.M. Fulford et all. (2004); “Toward a Philosophical Structure for Psychiatry” di K. Kendler (2005) e “La psicopatologia del senso comune” di G. Stanghellini (2006). Riprendo alcuni concetti di Fulford: – “Attraverso la values-based practice (VBP), un nuovo modello che lega il sistema dei valori ai dati di evidenza, la filosofia fornisce quegli strumenti che ci consentono di realizzare un lavoro rigoroso ponendo al centro del nostro interesse il paziente. L’impianto metodologico della VBP si basa su dieci “indicatori” chiave. Il punto di partenza (indicatore 1) è dato dalla particolare attenzione riservata al sistema di valori a cui fa riferimento ogni singolo paziente e la sua famiglia (!) . – “I riferimenti filosofici della VBP includono alcune discipline formali astratte come la linguistica, la fenomenologia e l’ermeneutica, ma le sue applicazioni pratiche riguardano sia gli interventi terapeutici, sia le politiche sanitarie e le iniziative per lo sviluppo dei servizi all’interno della Modernisation Agency del Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito”. – “La filosofia rappresenta uno sforzo straordinariamente tenace di pensare in maniera chiara. In psichiatria il bisogno di un pensiero chiaro nasce dal fatto che gli argomenti di cui tratta, sollevano in modo particolarmente acuto problemi di significato rispetto a concetti complessi dai quali deriviamo il senso del mondo che ci circonda. La fenomenologia, e alcune discipline ad essa affini, come l’ esistenzialismo e l’ermeneutica, risultano particolarmente utili per lo sviluppo di nuovi modelli di erogazione dei servizi più strettamente integrati e attenti ai significati individuali e culturali”. La torsione prospettica adombrata da Fulford riporta esattamente la questione entro il dominio dell’etica, intesa qui non più come fatto privato ma come modello procedurale ostensibile . Inoltre risulta evidente, dai pochi brani sopra riportati, che <i valori> sono considerati un bene in sé (per il paziente, per i suoi familiari ed anche per gli operatori) da cui partire nella loro più ampia comprensione e non un bene strumentale. Di qui la forte sfida che viene apertamente posta da questi nuovi saperi, sfida dall’interno della stessa Psichiatria e Psicologia. E’ chiaro dalle precedenti riflessioni che tutti gli autori si ancorano alla filosofia fenomenologico–esistenziale quale fondazione metodologica nello sviluppare una teoria ed una prassi fondate sui valori. Valuto quindi utile una breve sintesi dei costrutti portanti, per la pratica clinica, del comprendere fenomenologico. 4. Il comprendere fenomenologico: note sull’Empatia. L’approccio fenomenologico valorizza il ruolo della coscienza come facoltà in grado di percepire e comunicare gli accadimenti psichici soggettivi, vale a dire “come luogo (contemporaneamente virtuale e incarnato) della costituzione percettiva, progettuale, e relazionale dell’identità soggettiva dell’individuo e del suo rapporto col mondo interumano. Piuttosto che avere qualcuno di fronte, che è già un notevole progresso rispetto all’avere qualcosa di fronte (p.es. una psicosi maniaco-depressiva, una schizofrenia, o qualche acronimo che va per la maggiore: un D.A.P., un D.O.S., un D.C.A., … ), la psicopatologia fenomenologica ci propone l’essere con qualcuno, considerando per l’essere umano l’Esse come un Co-Esse. In realtà, da Husserl alla Stein, l’empatia è la possibilità che abbiamo di riconoscere l’altro come soggetto in un mondo di oggetti (Blankenburg W., 1971), come sorgente autonoma di desideri, bisogni, emozioni. Per Angela Ales Bello (2006), l’empatia in Edith Stein è la capacità che ha l’essere umano di rendersi conto che (piuttosto che “sentire” che) l’Altro è Alter Ego. L’empatia non è un sentimento; è la premessa, è la base su cui possono eventualmente e in seguito poggiare anche i sentimenti. Non significa vivere quello che l’altro vive, “perchè io mai vivrò originariamente quello che l’altro sta vivendo; rimarrò in ogni caso entro i limiti della mia corporeità, della mia individualità psico-fisica” (Edith Stein, 1991). Empatia è riconoscere che l’altro è una persona. Accettare l’Altro come persona è frutto di un processo graduale. In altre parole empatia è la possibilità di fondare la costituzione del mondo intersoggettivo nel quale tutti noi viviamo. In questa ottica, ma su un piano più strettamente clinico, empatia è acquisire la competenza per ragionare di volta in volta, con fatica, ma prontamente, sui fenomeni che si manifestano nei campi osservazionali, con l’obiettivo di assicurare un progetto terapeutico adeguato alla persona e al suo contesto interpersonale, senza procedere per schematismi automatici decontestualizzati. Nell’incontro con l’altro non si può che essere insofferenti di ogni riduzionismo di fronte alla complessità dell’altro da sé. I sintomi, in psicopatologia fenomenologica, sono considerati come segnali di particolari modi di essere al mondo. “Essere e Tempo” di Heidegger (1927) tratta dell’essere umano come essere-al-mondo, Da-Sein, esser-ci, nel luogo dell’essere che è il mondo. Ballerini (2002) sottolinea che l’uomo non sceglie da sé questa esistenza: nel mondo vi è stato pro-gettato. La malattia mentale appare come una modificazione e come una metamorfosi di questo essere nel mondo. “La coscienza metodologica – scrive Jaspers (1913)- ci tiene pronti di fronte ad una realtà sempre nuova che dobbiamo cogliere. La dogmatica dell’essere ci chiuderebbe in un sapere che si pone come un velo avanti alle nuove esperienze”. Per Jaspers la totalità dell’essere umano non può costituire l’oggetto di una conoscenza scientifica, né la patologia ricondotta a uno o pochi aspetti (ad esempio, la “temporalità” o la “spazialità”). L’uomo ammalato è sempre di più e di altro della più accurata analisi psicopatologica. Come Arnaldo Ballerini (2005) continua a ricordarci, il grande respiro spirituale di Jaspers è anche in questa consapevolezza sistematica dei limiti del conoscere, della provvisorietà dell’orizzonte di verità della psicopatologia, sempre superata e superabile, per cui, nonostante il metodo psicopatologico sia teso a fondare una scienza “oggettiva” (nel senso della comunicabilità e trasmissibilità) del “soggettivo”, lo psichiatra, lo psicoterapeuta non sarà mai liberato dallo stupore, e di fronte al singolo malato si ritroverà sempre nella posizione dell’<eterno debuttante>, come Husserl definiva il fenomenologo (1931). La fondazione fenomenologica della psicopatologia è tuttora il presupposto epistemico corretto per approcci diversificati alla sofferenza mentale. La psicopatologia fenomenologica offre dispositivi di conoscenza ai quali far riferimento nello sforzo quotidiano di scegliere la modalità di presa in carico più efficace e più usufruibile dalle persone sofferenti. In effetti, senza la prioritaria attenzione all’ascolto e allo studio degli aspetti formali delle esperienze patologiche e della densità dei significati che esse veicolano, non si vede come sia possibile un progetto di terapia, esteso nel tempo, lungo i sentieri di vita e della malattia. La psicopatologia fenomenologica ha così una doppia valenza: da un lato può essere un razionale per la ricerca in psicoterapia, dall’altro si oppone consapevolmente a che un necessario riduzionismo metodologico si trasformi in riduzionismo ontologico per il quale le persone scompaiono entro connotazioni psicologiche, semanticamente sofisticate ma pur sempre meccanicistiche. La relazione di reciprocità, dunque, va intesa come una categoria primaria dell’umano. Le “cadute” psicopatologiche di questa categoria possono essere lette in chiave di “incontro mancato”, vale a dire d’incapacità o impossibilità a strutturare l’esperienza dialogica del noi terapeutico. L’obiettivo etico diviene quindi la realizzazione delle condizioni fattuali, oltre che empatiche (nella rigorosa accezione già esposta), verso la ricerca di ordinatori psicopatologici di livello superiore. Tali ordinatori ampliano l’orizzonte in cui si colloca la rilevazione dei singoli fenomeni, affinché uno scenario più articolato si ponga quale donatore di valore ai fenomeni psicologici e psicopatologici elementari. 5. Lesioni al mandato terapeutico conseguenti a lesioni nella coscienza etica. Nelle pagine precedenti ho tentato di argomentare lo scenario entro cui, a mio parere, va inquadrato il rapporto tra coscienza etica e coerenza procedurale. Sottolineo ancora una volta il fatto che le discrepanze non attengono alla moralità o meno del terapeuta, ma incidono direttamente sull’efficacia del trattamento. Purtroppo la nostra comunità scientifica, e la comunità sociale, più ampia si arrestano ai confini di questo territorio che rimane totalmente non esplorato. L’assenza di analisi di una problematica così radicale ha diverse conseguenze nefaste. La più pericolosa è l’impossibilità di studiare i fallimenti terapeutici, vale a dire la <non cura, la <non guarigione> al di là della attribuzione di colpa, ma come campo euristico di un continuo miglioramento possibile dell’efficacia stessa. I grandi colpevoli, nel nostro immaginario collettivo, sono due, intendendo per colpevoli l’attribuzione etiologica degli eventi psicopatologici: la malattia e la famiglia. – La malattia, intesa come inquadramento nosografico, qualunque esso sia, viene definita come lesionante in sé, cronicizzante in sé, quindi di per sé non guaribile ma soggetta al massimo ad adattamenti parziali, a forme di compensazione deficitarie. Se definisco schizofrenico o psicotico (per semplice pudore nominalistico) un giovane di 18 – 20 anni, definisco un’entità esistente in natura o costruisco una profezia auto-avverantesi con la conseguenza che alcuni anni dopo lo ritrovo in un limitato territorio di vita con crisi più o meno periodiche? – La famiglia è, in quasi tutti i paradigmi interpretativi, la causa lesionante ultima della mente del bambino, dell’ adolescente, del giovane adulto. Certo, con quello splendido trucco chiamato paradigma bio-psico-sociale, ognuno di noi, neuroscienziato, psichiatra, psicologo può ritagliare la sua competenza nel mito della causalità multifattoriale, dalla lesione genetica entro gli alberi genealogici, fino alla madre manipolativa e simbiotica e al padre periferico o assente. “Con quella madre lì come non capire che Maria sia anoressica e Marco psicotico?” Ad un congresso, entro una relazione scientifica pubblica, nessuno si esprimerebbe così. Ma è il linguaggio colloquiale tra i professionisti, o con i pazienti e i loro familiari, che tradisce il vero pensiero valutativo, la vera considerazione che abbiamo dei nostri interlocutori, il vero assetto mentale con cui rileviamo fenomeni, con cui li interpretiamo e con cui pianifichiamo gli interventi. Nel campo dell’esistere umano, come ha sempre affermato Mara Palazzoli Selvini, ogni proposizione etiologica, vale a dire entro sequenze lineari, è ineluttabilmente percepita e veicolata come attribuzione di colpa, indipendentemente dalla intenzionalità di chi propone. Credo che questa radicale affermazione etica sia spesso ignorata e di conseguenza non assumiamo la comprensione dell’effetto che le nostre parole suscitano nell’interlocutore. Da quale sua matrice di senso sono codificati i nostri linguaggi? Prima di passare ad una trattazione più sistematica, anche se breve, delle aree maggiormente sensibili dove rilevare lesioni nella coscienza etica, desidero riassumere una storia drammatica e un breve flash che sintetizzano quando sopra esposto. Una storia: Due genitori chiedono un incontro, da una cittadina della provincia di Roma, molto preoccupati per la figlia di 15 anni con un quadro drammatico di fenomenologia borderline. La ragazza è in terapia personale da due anni, senza miglioramenti. Chiedo, ovviamente, perchè non si consultino con lo psicoterapeuta della figlia. Risposta: “E’ una brava persona ma quando l’abbiamo contattato ci ha risposto che purtroppo il suo <modello> impediva questo incontro. Proseguono: “Nostra figlia è stata anche ricoverata, pochi mesi fa, in una clinica universitaria. La psichiatra ci ha comunicato che nostra figlia le sembrava schizofrenica ma che non poteva pronunciarsi perchè il gene della schizofrenia si esprime a pieno solo sui 18 anni e quindi noi dovevamo attendere”. M’impegno con loro di contattare subito lo psicoterapeuta per capire il suo progetto e organizzare una condivisione con i genitori. Mi ringraziano. Telefono il giorno stesso; con il collega, per altro molto disponibile, concordiamo un nuovo appuntamento telefonico. La mattina dopo, alle sette, il padre mi chiama: “Nostra figlia si è buttata dalla finestra ed è morta. Grazie ma era ormai troppo tardi!” Sono consapevole che la storia sembra costruita ad arte, ma a distanza di tre anni, quando penso all’etica, penso a Luisa, penso ai modelli, penso ai cromosomi. Da allora combatto una mia guerra personale contro il costrutto <modello> (2007a). Un flash: Giovane collega in formazione mi propone una supervisione “per un caso di un paziente borderline con la madre simbiotica”. Gli chiedo di delucidare gli elementi secondo i quali ha formulato questa <doppia diagnosi>, una sul paziente, una sulla madre. Mi guarda stupito: “Non li ho mai incontrati, con queste parole me li ha presentati il tutor nel Servizio dove frequento il tirocinio”. Io allora: “Chiedi tutte queste informazioni al tutor”. “Non le sa, ha incontrato il ragazzo una volta solo per breve tempo”. Una frase vuota di senso diviene realtà ontologica per l’allievo. Con quanti, troppi, di questi cortocircuiti ho avuto a che fare! Ciò significa che tali eventi non sono imputabili ai singoli professionisti ma al fatto che lo sguardo è sui paradigmi e non sulle persone. Nessuno sanzionerà quello psicoterapeuta, quella psichiatra, quel tutor; al massimo si commenterà sarcasticamente la <stupidità> del loro paradigma teoretico. Il problema vero è la non sanzionabilità deontologica di gravi lesioni etiche. E’ evidente che è intaccato il fondamento stesso del nostro lavoro, ciò che lo rende possibile, specifico nella sua peculiarità ed efficace. Tre sono le aree che andrebbero assunte come focus elettivo nell’esplorare la coerenza etica tra le premesse filosofiche e le modellistiche operazionali: i drop-out, la cronicizzazione della patologia e della vita, la storia seriale dei trattamenti. In altri scritti ho tentato di documentare come questi fenomeni, tra loro accomunati ma pur sempre discontinui, sarebbero riconducibili alla disconferma del paziente e dei suoi familiari in quanto persone (Pontalti, 2002, 2006a, 2007b). Ci sentiamo compresi, in quanto persone portatrici di valori e di codici di senso, solo se il nostro interlocutore si pone come <l’eterno debuttante> di Husserl, vale a dire se evita di definirci secondo categorie a-priori. La costruzione lenta e competente di questa tessitura fonda l’alleanza terapeutica e fonda l’empatia nell’accezione descritta per esteso nelle pagine precedenti. Senza questa tramatura portante, diviene impossibile l’adesione del paziente e dei suoi familiari al progetto di cura proposto (e quindi, drop-out, cronicità, serialità). Questa è la sfida che stanno ponendo, alla psichiatria e alla psicoterapia, la values-based practice e la psicopatologia fenomenologica. La rilevazione degli indicatori etici sarebbe quindi il compito “scientifico” che ci attende nei prossimi anni. Dove cercarli per poterli porre in riflessione euristica? Due sono gli ambiti elettivi: uno a micro-fenomenologia ed uno a macro. Mi avvio alla conclusione ampliando queste riflessioni, delucidate da brevi scenette cliniche. 5.1 Cecità etica rilevabile da micro fenomeni. Per micro fenomeno intendo indicatori linguistici e comportamentali che “tradiscono”, in pratica rendono visibile, la concezione che il professionista ha del paziente e dei suoi familiari. Desidero inserire una precisazione. Accomuno sempre il lemma <paziente> con il lemma <familiari> non perchè devo dimostrare che sono un terapeuta familiare, ma perchè mi sembra un assoluto delirio ignorare che ogni paziente, in quanto essere umano, vive in relazioni di famiglia, abita territori di famiglia, è attraversato da storie di famiglia. Inoltre pensare in termini di <familiari> piuttosto che dire <il paziente e la sua famiglia> mi aiuta ad incontrare persone piuttosto che un’ipostasi antropologica quale è l’istituzione famiglia. Sono libero di non utilizzare un linguaggio che è così stereotipato da non significare più nulla. Oggi l’immaginario collettivo, ben educato da noi, cosa pensa essere la famiglia se non un insieme di funzioni (funzione materna, paterna, genitoriale), di figure (figura materna, paterna … etc.), di deficit. Così, senza volerlo, sono già entrato nel tema del paragrafo. I campi terapeutici sono i territori entro i quali rileviamo fenomeni che andiamo a connotare secondo la terminologia delle scuole di appartenenza e secondo automatismi che non controlliamo. Nella nostra cultura sociale le madri sono prossimali al confine con le istituzioni, siano esse sanitarie che scolastiche. Questo è semplicemente un dato antropologico che nulla ci dice sul modo di essere padre di un padre. Leggiamo tuttavia il dato come conferma di una nostra preconcezione: i padri sono periferici. Generalmente li invitiamo, affidando il compito alla madre. Di solito o non vengono o fanno una fugace apparizione. Se li pensiamo come persone possiamo procedere in modo diverso. Telefono io a loro; chiedo il loro aiuto e li prego di venire da soli per poterci conoscere, anche per più di un incontro. E’ molto frequente sentire: “dottore, lei è il primo che pensa che abbia qualcosa da dire”. A volte la commozione per questo spazio riservato a loro si esprime con un pianto telefonico. Lo spazio riservato significa che si sentono interpellati per loro stessi e non in funzione di ruoli: essere il padre di … , essere il marito di … . Sono pensati come <corpi> e non come funzioni. La medesima impostazione è ovviamente essenziale anche per le madri. Con bambini, adolescenti e giovani adulti a rischio di grave psicopatologia, il procedere dialogando con persone e non con funzioni o ruoli ha drasticamente ridotto gli abbandoni e quindi il rischio di serialità successiva di interventi. È perciò la coscienza etica sulla natura dell’Altro che genera efficacia o fallimento nella cura, molto più che la correttezza delle procedure modellistiche. Ritorniamo alla semantica dei linguaggi. Nel caso l’operatore Psi non sappia cercare, ascoltare e comprendere il punto di vista dell’Altro, è obbligato a connotare le modalità manifeste comportamentali ed emotive. Di conseguenza la rappresentazione che diviene operante in lui è inevitabilmente negativa e sfiduciata. Alcuni flash: – “Perchè mai dovremmo pensare ad una psicoterapia per un ubriacone, ignorante, anziano e cirrotico?” – “La paziente è così superficiale e fatua che non può certo rimanere nel gruppo terapeutico dove per altro non parla di sé e mente”. – “Signora, lei non può chiedere che farmaci assume suo figlio; è la solita ansiosa manipolativa che non riesce a staccarsi da suo figlio”. (La signora è per altro la tutrice del figlio interdetto) – In una Casa Famiglia: “La mamma di Mario era così aggressiva con noi operatori che abbiamo ottenuto dal giudice un decreto con il divieto per la madre di incontrare il figlio di 13 anni, ospitato da quando ne aveva sei.” In questa storia Mario, sui 16 anni, è entrato in psicoterapia e ha continuato a far risalire i suoi problemi a questo divieto. Il giovane psicologo, forte del suo orientamento psicoanalitico, lo voleva sempre riportare ai traumi della prima infanzia. Quando ne abbiamo parlato, il collega era disperato perchè la situazione era totalmente stagnante. Sembra ovvio o no? È ben chiaro che molti professionisti e molte istituzioni si muovono in maniera diversa rispetto alle scenette illustrate. Il problema è un altro: l’assenza di ordinatori etici al fondamento della pratica psicologico-psichiatrica ha come conseguenza che ogni assetto di cura può coesistere, senza che mai si configuri la possibilità di un controllo scientifico e sociale condiviso su miriadi di tali vere e proprie malpractice. 5.2. Cecità etica rilevabile nei macro fenomeni. Per macro fenomeno intendo la ripetitività stereotipata o ideologica della configurazione dei progetti di cura e delle premesse rispetto alle quali sono configurati. Intendo trattare, molto brevemente, del Tempo e della Rete. 5.2.1 Il Tempo Per Tempo intendo il tempo necessario perchè si possano evidenziare i fenomeni rilevanti al comprendere le caratteristiche peculiari sia del quadro psicopatologico sia dei più ampi contesti di vita. A questo riguardo, competenza significa capacità di rilevare fenomeni, di decidere quale sia il campo osservazionale adeguato, di nominare i fenomeni stessi. In senso lato sto parlando del tempo per formulare un’ipotesi diagnostica, qualunque sia la terminologia a cui ci riferiamo (nosografica tipo DSM, sistemica, psicoanalitica, cognitivistica, etc.). Quanti incontri sono necessari per formulare una diagnosi con il DSM (i 5 assi vanno cercati perchè così richiede il razionale dello strumento) e con quali interlocutori (l’asse 2 richiede per forza di rilevare racconti sullo sviluppo ed il comportamento interrogando genitori e/o insegnanti)? Per definire una madre come simbiotica, un padre come assente dobbiamo incontrarli di persona altrimenti trattiamo i racconti del paziente quasi fossero tavole di Rorschach sulle quali proiettiamo le nostre prefigurazioni senza vincolarci all’etica dell’incontro. – Riporto il seguente protocollo relativo ad un adolescente ricoverato, in un celebre Ospedale, per disturbi comportamentali; il ragazzo, 16 anni, entra con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo ed è dimesso con diagnosi di psicosi. Durante il ricovero viene effettuata <una seduta familiare diagnostica> il cui report inizia così: “La madre si pone con freddezza al centro della scena e domina su tutti. Il padre è sottomesso e da un suo breve racconto si evince che non ha elaborato il lutto per la morte della madre con cui aveva un rapporto simbiotico.” Il report procede su questa falsa riga per una pagina. Il lettore sa spiegare la differenza tra queste valutazioni rilevate in un’ora d’incontro dal guardare nella sfera di cristallo? Questi dati hanno contribuito a sostanziare la diagnosi di psicosi e la prescrizione di neurolettici. – La diagnosi di disturbo borderline su di un padre trentenne, formulata con poche notizie ma sostanziata da un questionario, diagnosi riportata in una relazione al Tribunale dei Minori, ha determinato l’allontanamento da casa verso un Istituto dei suoi tre figli di 6, 8, 10 anni. Queste sono due storie con le quali sono venuto in contatto nell’ultimo mese. Si può immaginare quante ognuno di noi ne potrebbe riferire! Ciò nonostante, nulla di tutto ciò turba né la comunità scientifica né la società. L’unica dimensione devastata è la vita del paziente e la vita di altri con lui entro la famiglia. 5.2.2 La Rete. Per <rete> intendo tutto il lavoro di connessione che il terapeuta deve saper condurre per rendere comprensibile, quindi pensabile, il suo lavoro, comprensibile a sé, al paziente, ai familiari e ad ogni persona in ogni caso coinvolta. Ciò significa che spesso il lavoro di terapia comporta uscire dalla stanza, cercare interlocutori e accoglierli nella stanza di terapia. Riprendo la storia del ragazzo che non poteva incontrare la madre in Casa Famiglia per decreto del tribunale. Il giovane collega, aiutato a porsi in una prospettiva diversa, incomincia a pretendere incontri con gli educatori responsabili di Mario. Viene a sapere che il ragazzo, che sta per compiere diciotto anni, avrebbe dovuto lasciare la Casa Famiglia. Gli operatori erano così preoccupati per questo passaggio che avevano richiesto alla psichiatra di riferimento una relazione di grave psicopatologia cronica per poterlo inserire in una Comunità Terapeutica. Il collega viene anche a sapere che la madre di Mario si è risposata, che il padre di Mario si è risposato, che Mario ha uno zio medico, sposato senza figli. Il paradosso appare nella sua tragica evidenza. Mario ha a disposizione tre famiglie dove potersi inserire, ma è destinato ad una Comunità Terapeutica in quanto cronico (nessuno sa argomentare questa cronicità; ma che importa! È a fin di bene). Solo a questo punto il collega si rende conto che nessuno ha mai pensato di confrontare, con le persone di questo complesso scenario familiare, un pensiero sul destino di Mario. Ne ha parlato con Mario: “Voglio incontrare tua madre; tu non puoi, ma a me il tribunale non me lo ha vietato”. Risposta di Mario: “Tanto ci hai messo a capirlo?” E da quel momento la psicoterapia è andata vagando su nuovi territori, in nuovi incontri, in nuove case. Oggi Mario vive con la madre, perfeziona il lavoro di giardiniere che tanto gli piace, incontra il padre e lo zio. Posso terminare con questa domanda che è radicale nella mia concezione di etica: “Mario è mai stato pensato come persona dai giudici, dagli assistenti sociali, dagli operatori della Casa famiglia dove è rimasto per dieci anni? e, per quasi due anni, dal giovane collega e dalla struttura universitaria dove il collega lavorava? Dal momento in cui Mario è diventato persona ai nostri occhi, il suo destino si è trasformato. Questa evoluzione ci rende contenti del lavoro. Ma nei luoghi della cura e dell’ospitalità nulla è cambiato per tanti altri Mario o Carolina o .. La responsabilità di noi che operiamo nel territorio dell’esistere umano, è continuamente confrontata con una sorta di Idra a tre teste, mostro terrifico se siamo soli; sono tre pregiudizi così radicati nella cultura della nostra epoca che non li sappiamo riconoscere e che operano nostro malgrado: il pregiudizio individualistico, il pregiudizio di cronicità, il pregiudizio sulla famiglia come luogo dell’ammalarsi. I pregiudizi s’indovano nello iato tra concezione filosofica e procedure operazionali. Questo è il luogo dell’etica che deve diventare da vincolo personale del singolo a vincolo della comunità scientifica, in modo che la società possa interrogare con efficacia il nostro lavoro . RIASSUNTO La cura psicologica della sofferenza umana pone interrogativi etici fondamentali. Il principale interrogativo è: quale concezione abbiamo dell’essere umano che chiede il nostro aiuto e quale concezione abbiamo dei suoi familiari? Parlare di concezione significa esplicitare il retroterra filosofico del lavoro psicoterapeutico. Significa rendere possibile una valutazione comunitaria della coerenza tra concezione filosofica e procedure cliniche. Un forte impegno è oggi stimolato dalla values-based practice (VBP.) che centra la sua prospettiva sul sistema di valori del paziente e della sua famiglia fondandosi sui concetti della filosofia fenomenologica, dell’esistenzialismo e dell’ermeneutica. Diverse storie cliniche illustrano questa prospettiva. ABSTRACT The psychological therapy of human pain asks many basic ethical questions. The first is: what we think about the person who asks our help and what we think about the persons of his/her family? This puts the question of the psychotherapy’s philosophical background and puts the question of the coherence between philosophy and clinical practice. This coherence must be submitted to the scientific and social community. Today a meaningful effort is proposed by the values-based practice (VBP). The starting point of ethical process in VBP is careful attention to individual patients’ values and to family’s values. Phenomenology, existentialism and hermeneutics are particularly helpful in giving us a more complete picture. Many clinical short stories explain this point of view. BIBLIOGRAFIA 1. Ales Bello A., L’empatia per Edith Stein, Seminario, Policlinico Gemelli, Roma, 2006 (inedito). 2. Ballerini A., Psicopatologia fenomenologica: percorsi di lettura, CIC Ed., Roma, 2002. 3. Ballerini A., Caduto da una stella – figure della identità nella psicosi, Fioriti editore, Roma, 2005. 4. Beneduce R., Pulman B., Roudinesco E., Etnopicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 5. Blankenburg W.(1971), La perdita dell’evidenza naturale, RaffaelloCortina, Milano, 1998. 6. 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