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Disagio giovanile e Comunità

Fonte: “Disagio giovanile e Comunità” di Mario Mulè (Catania, 01.12.2010)

Dobbiamo ammetterlo: quando il nostro sguardo di operatori e di studiosi della psiche si allontana dall’individuo e dalla famiglia; quando tenta di scrutare oltre il piccolo gruppo, si rivela offuscato, appannato. Potremmo anche dire, utilizzando una metafora, che soffriamo di miopia e perciò la vista di scenari ampi e complessi si rivela incerta, confusa.

Il patrimonio di conoscenze che si è accumulato in quest’ultimo secolo con il lavoro di Freud e della psicoanalisi e negli anni successivi con i contributi della terapia familiare, della cognitivo comportamentale, delle stesse neuroscienze hanno ampliato certamente l’esplorazione del soggetto e della sua vita mentale quale si sviluppa e si realizza nei contesti intrapsichici ed interpersonali, ma solo raramente sono stati offerti squarci di luce che illuminassero le fitte correlazioni e direi anche le matrici costitutive che lo legano al sociale e che fin dal momento della nascita fondano il soggetto, promuovendone la salute o provocandone limitazioni e sofferenza.

Nella storia dell’uomo altri hanno tentato di assolvere a tale funzione: e sono stati i filosofi, i tragici greci, le religioni, i profeti.

Ma chi erano i profeti? Contrariamente al senso che comunemente si dà a questo termine, profeta non è colui che prevede il futuro, non è l’indovino che annuncia gli eventi che incombono su una comunità. Il profeta è colui che guarda al presente dell’uomo, scruta il senso del suo vivere e la sua parola ci parla del vivere bene e del vivere male, del “ben-essere” e del “ mal-essere”.

Umberto Galimberti, quando scrive “ L’ospite inquietante”, si pone come un profeta, Erich Fromm è stato tenacemente profetico per tutta la sua vita non solo scrivendo libri ma accettando di parlare in una serie di conversazioni radiofoniche rivolte al popolo tedesco su tematiche attuali e drammatiche quali il nazismo, la distruttività umana, il dominio del superfluo, etc.

Profetico voleva essere Carlo Marx, nella sua vocazione umanistica e nella sua esigenza di liberazione dell’umanità, al di là delle indicazioni politiche e soprattutto delle sue traduzioni aberranti e disumanizzanti.

Vorrei segnalare anzitutto un principio ispiratore che ritroviamo sempre nelle visioni che abbiamo definito profetiche. Questo principio si ritrova come elemento fondativo nelle religioni teiste e non teiste, in Gandhi e in Martin Luter King, in A. Schweitzer e nell’anonimo frate cambogiano missionario nel Darfur: questo principio è la fede nell’uomo, la fiducia nelle potenzialità umane anche laddove sta dominando il degrado e la più profonda regressione.

Certo, la storia dell’uomo e soprattutto lo sguardo al secolo appena trascorso non ci conforta: guerre mondiali, persecuzioni, rifiuto violento di chi cerca di varcare le barriere che il mondo opulento ha eretto verso chi muore di fame o di guerra, ed infine il saccheggio delle risorse del pianeta e l’offesa alla natura che si sta rivoltando contro di noi.

Il popolo ebraico, che pure non era stato risparmiato da guerre, persecuzioni e carestie, aveva creato l’utopia dei tempi messianici: per quanto lunga potrà essere la strada, arriverà il momento in cui il lupo e l’uomo potranno vivere in pace, un tempo in cui si realizzerà l’armonia e la convivenza gioiosa tra uomo e uomo, tra l’uomo e la natura.

Forse alcuni di voi si chiederanno dove sto andando con questi discorsi e quanto ci stiamo allontanando dalla nostra pratica e dalla nostra operatività.

A mio parere queste istanze utopiche, che altro non sono se non fiducia nelle potenzialità umane, possono e debbono entrare nel rapporto con l’altro, che sia educativo o che sia anche strettamente clinico.

Cercherò di sostenere questa affermazione attraverso dati provenienti dalla clinica.

Negli ultimi anni ha avuto notevole successo in ambito psicoterapeutico un modello che molti di voi conosceranno e che ha preso il nome di teoria della padronanza-controllo e successivamente del funzionamento mentale superiore elaborato da un gruppo di ricerca di S. Francisco.

E’ un modello accolto favorevolmente sia in ambito psicodinamico che in ambito cognitivo e che ha una specificità: non deriva infatti da una preesistente teoria della psiche, essendo stata costruita a partire dallo studio di migliaia di registrazioni di sedute di psicoterapia realizzate in setting di varia ispirazione.

Credo che il punto di partenza di questa ricerca sia stato il dato di una certa equivalenza nell’esito e nell’efficacia delle varie psicoterapie e da qui l’esigenza di individuare quali interventi si rivelavano efficaci e quale denominatore comune condividevano.

Di questa teoria faccio cenno solamente ad un elemento fondamentale, che ci riporta al discorso che stiamo facendo.

I ricercatori trovarono che gli interventi risultavano efficaci quando erano “ pro-plan”, e cioè coerenti con un piano inconscio di guarigione già presente nel vissuto profondo del paziente.

In altri termini il pensiero di questi ricercatori molto pragmatici è che ogni paziente inconsciamente conosce la strada per un percorso verso il benessere, e quello che un terapeuta deve fare è capire la sua configurazione ed assecondarne la direzione.

Chi ha letto il libro di U.Galimberti sui giovani potrà riconoscere una sintonia tra quanto affermato dalla Scuola di San Francisco e l’invito, contenuto nella prefazione al libro, di guardare alla salute come endaimonia, come l’arte di realizzare con misura il dàimon, le proprie specifiche qualità che premono alla ricerca di esistenza.

Dunque dicevamo la fede nell’uomo.

Ma avere fede nell’uomo non significa scotomizzare i mali dell’uomo, anzi ci può essere possibilità di crescita umana solo attraverso la consapevolezza dei processi involutivi che convivono con il bisogno di evoluzione o se volete di individuazione, per usare un termine caro a Jung.

Processi involutivi che non riguardano solo il singolo individuo, ma che debbono essere guardati nello scenario più ampio della vita sociale cui inestricabilmente sono intrecciati.

Sto richiamando qui la necessità di superare il pregiudizio individualistico che negli ultimi tempi ha preteso di guardare all’uomo come ad una realtà quasi autonoma e non più come il nodo di una rete, per dirla con Fulcks.

E. Fromm è l’autore, fra quelli che conosco, che ha provato con più insistenza e convinzione ad esplorare il cosiddetto carattere sociale, cioè quei modi di essere che provengono dalla comunità in cui si vive. Lo ha fatto attraverso una ricerca che utilizza certo materiale tratto dalla sua esperienza di analista, ma anche dallo studio delle religioni, della storia, della economia, del pensiero filosofico, dell’antropologia.

Questo modo di indagare l’uomo, da una posizione definibile come umanesimo radicale, lo colloca in modo originale nello scenario del mondo psicoanalitico che non ha mai rinnegato, rivendicando tuttavia libertà ed autonomia di pensiero: autonomia ma non isolamento, chè anzi i rapporti intessuti nel tempo con studiosi di varia provenienza per ambiti disciplinari e geografici hanno sempre caratterizzato la sua vita.

Cosa voleva indicare Fromm quando parlava di carattere sociale? Voleva segnalare un processo, sottile e sotterraneo, che agisce sull’individuo attraverso soprattutto la famiglia, tramite il quale vengono interiorizzate norme, ideologie, comportamenti che sono funzionali al sistema socioeconomico di quel momento storico.

Il soggetto crede di scegliere, in realtà ubbidisce ad un sistema che lo ha forgiato in modo che egli vuole ciò che risulta funzionale al mantenimento del sistema stesso.

Così, per esempio, era funzionale al capitalismo della prima metà del secolo scorso il “carattere accumulante” così efficacemente descritto da Verga attraverso il personaggio di Mastro Don Gesualdo. Al giorno d’oggi è molto più difficile imbattersi in persone con tale carattere.

Si è affermato e sta dominando un altro carattere, che Fromm ha chiamato recettivo, perché orientato a prendere, ad incorporare quanto può riempire, cercando comunque sempre il bene fuori da sé e mai attingendo a se stessi.

E’ “ l’homo consumens”, indispensabile per mantenere positivo il PIL che non deve mai fermarsi o decrescere, perché altrimenti crolla il sistema.

Tutti abbiamo presenti gli inviti rivolti ai cittadini, anche in questi tempi di crisi, ad essere ottimisti: “ comprate” , “ consumate” è stata la parola d’ordine del nostro Presidente del Consiglio.

Ma non c’è più neanche bisogno dell’esortazione del Capo del Governo. Chi riuscirebbe più a fermare il bisogno di cambiare l’auto con una nuova, se appena gli è possibile, magari con l’aiuto di una finanziaria? Chi riuscirebbe a ridurre le spese per telefonini e telefonate di giovani e meno giovani ormai tenacemente attaccati al cellulare?

L’homo consumens descrive solo un aspetto dell’orientamento caratteriale dell’uomo contemporaneo nel mondo cosiddetto occidentale.

Un altro aspetto si concretizza nella tipologia che Fromm ha denominato “ carattere mercantile”.

E’ questo un modo di porsi agli altri ed al mondo non a partire dalle qualità umane ma spinti dal bisogno di piacere, di piazzarsi spuntando il massimo del prezzo, come si fa in un mercato o con la vetrina di un negozio dove si espongono i prodotti più accattivanti. Non so se già trent’anni fa, quando Fromm descriveva il carattere mercantile, in America ci fossero le “veline”. Ma veline non sono anche i soggetti pubblici impomatati che si addestrano ad apparire “gradevoli” piuttosto che competenti, onesti, autentici? Quanto conta oggi per il successo l’onestà, la competenza, l’autenticità e quanto invece l’apparenza, l’abilità nel comunicare, l’efficienza nell’avere successo, a prescindere dai mezzi che vengono utilizzati?

Quanto influisce tutto questo nel disturbo dell’immagine corporea, così frequente nei disturbi del comportamento alimentare?

Voglio accennare ancora ad un altro orientamento caratteriale definito da Fromm “ uomo cibernetico”.

Qui si vuole indicare il rapporto con la tecnica, con quanto è stato creato dall’uomo per agire sulla realtà e per ampliare le possibilità della propria vita: pensiamo, per esempio, all’invenzione degli aerei, ai mezzi di comunicazione ed alla straordinaria possibilità che ci offrono di vita e di conoscenza.

Ma pensiamo anche alla bomba atomica, pensiamo all’impoverimento delle risorse, agli effetti disastrosi dell’industria sulla vita del pianeta. C’è il rischio che la tecnica non sia più uno strumento al servizio dell’uomo, ma che l’uomo si pieghi diventando succube della tecnica, che l’oggetto tecnologico diventi oggetto di adorazione.

Così si esprime Fromm: “ L’uomo prende un pezzo di legno e lo divide in due parti; con una accende il fuoco, con l’altra può farne una statua ed adorarla.”

Il pericolo dell’idolatria, cioè della tendenza umana a collocare aspirazioni e potenzialità fuori da sé, alienandosi, non è confinabile al mondo giudaico e cristiano, che tanto vi ha insistito, ma è un rischio sempre presente nella condizione umana.

Ho usato il termine “ alienazione”: è un termine che può servire a condensare in una sola parola tanti modi di essere descritti prima con la caratterologia sociale.

Alienato è chi, in vario modo ed in varie forme, non riesce a trovare dentro di sé le risorse per una vita che abbia come elementi fondativi la fiducia, la creatività, l’amore, la verità, la conoscenza, la giustizia, la tenerezza.

Quale possibilità è data all’uomo di realizzarsi, come ci ammoniva Dante, secondo virtude e conoscenza?

Qui ritorna il valore che possono avere per l’uomo le sue utopie, la fede nei tempi messianici, come si diceva prima, per quanto lontani possano apparire.

Fromm utilizza la metafora della candela, di una singola candela che, se accesa, non potrà certo illuminare a giorno come fa il sole, ma potrà tuttavia trasformare una condizione di buio accecante anche con la sua flebile luce.

E’ un discorso che parla di possibilità, di speranza, di futuro.

Ma quanta speranza, quanto futuro c’è oggi, nella realtà del mondo e nel vissuto delle nuove generazioni?

Sembra che questi ultimi decenni abbiano lavorato, silenziosamente e magari inconsapevolmente, per uccidere il futuro. E non per ucciderlo simbolicamente, ma in maniera affatto concreta. Si pensi all’esclusione dei giovani dal mondo del lavoro, si pensi al degrado di questo pianeta: l’avvelenamento della campagna napoletana non è solo testimonianza di incapacità della politica, è anche metafora di un individualismo esasperato che non rispetta più neanche i figli che cresceranno su un suolo intossicato e malefico.

Senza futuro non c’è progetto. Progettarsi, ci ricordano i fenomenologi che mettono il trattino tra il pro- e il gettarsi, ci parla di uno slancio verso il futuro. Ma se non c’è il futuro?

Ancora i fenomenologi ci avvertono : “ Dove non c’è futuro si radica la depressione”.

Umberto Galimberti, interrogandosi sulle radici del disagio giovanile, ci ammonisce a non psicologizzare e meno ancora a psichiatrizzare questo fenomeno, anche quando assume le forme della dipendenza da sostanze piuttosto che altre forme di devianza o più semplicemente di apatia, disinteresse, analfabetismo emotivo.

Questo autore va alla ricerca delle radici culturali del malessere e le ritrova in quell’ “ospite inquietante” ( sono parole di Nietzshe ) che si aggira fra noi e nel mondo giovanile che si chiama nichilismo.

Nichilismo come perdita di senso, ormai radicatasi nel mondo post-moderno anche nelle sue forme sociali che hanno dato luogo ad una società liquida, ad una liquefazione delle istituzioni comunitarie e dei suoi vincoli limitanti ma protettivi.

Proviamo adesso a tirare le fila del discorso.

Il fenomeno del disagio giovanile, nella sua dimensione di fenomeno sociale, ci costringe ad uscire dall’ambito, pure così ricco e complesso, della psicologia e della psichiatria e ci richiede uno sguardo più ampio, che sia antropologico o sociologico o filosofico, che cerchi comunque di coglierlo nella sua condizione di dimensione umana.

La riflessione, condotta attraverso i secoli, sulla condizione umana, sembra parlarci di una duplice possibilità presente nell’uomo, di una alternativa o quanto meno di due direzioni possibili.

Di volta in volta queste due direzioni sono state indicate con termini diversi: l’invito alla consapevolezza, il conosci te stesso di Socrate ed i principi umanistici dell’Illuminismo ( liberté, fraternité, egalité ) hanno in comune un’istanza di crescita umana. Restando più vicini ai nostri tempi ed ai nostri linguaggi, possiamo affermare che in ognuno di noi c’è un essere fondato dall’altro ed una possibilità di ricostruirsi ( l’eteronomia e l’autonomia o l’autopoiesi nel linguaggio di Diego Napoletani).

In ognuno di noi è possibile riconoscere una “ linea arretrata” ed una “ linea avanzata”, per usare il linguaggio del compianto Sergio Piro, una aspirazione all’esserci ed una tendenza ad una vita inconsapevole ed alienata, nel linguaggio di Fromm.

Certo è che un lavoro come il nostro, se non vuole essere solamente riparativo, se aspiriamo ad essere “ tecnici della liberazione” secondo una felice espressione di Sergio Piro, comporta un allargamento di orizzonti ed un fitto dialogo con altri soggetti ed altre discipline, uscendo fuori dalla nicchia che rischia di imprigionarci. E gli strumenti, al di là della dimensione clinica, sono quelli della consapevolezza e della creatività.

Alcune esperienze che abbiamo fatto negli anni passati, che ci hanno visto lavorare accanto ad artisti che utilizzavano la scrittura creativa o la drammatizzazione ci confortano, perché ci hanno fatto vedere altri setting ed altri strumenti efficaci nel promuovere la crescita e la creatività dei ragazzi che hanno partecipato.

Sono esperienze che ci riportano a Galimberti e alla sua proposta: la cura del senso di insensatezza, del nichilismo che ha impregnato di sé le nuove generazioni forse non sta nella “ ricerca esasperata di senso…ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, e quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daimon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonia”.

Ed anche quando ci troviamo nella situazione clinica dovremmo ricordarci che abbiamo la possibilità, come raccomandava Armando Bauleo, di guardare al nostro paziente come rappresentante di un gruppo più ampio che vive difficoltà simili, come una sorta di ambasciatore che parla a nome di una comunità cui appartiene.

Un esempio di questa possibilità ci è offerta, ad esempio, da A. Correale che vede dietro ai pazienti borderline una condizione umana molto più estesa soprattutto nelle nuove generazioni e che condivide, magari a livello sub-clinico, la difficoltà a fare sedimentare le esperienze, a farne una costruzione narrabile, a muoversi nel mondo avendo acquisito una struttura sufficientemente solida da assimilare l’esperienza senza essere continuamente spostati in un movimento caotico ove manca una direzione ( è la “stabile instabilità” di cui parlano i manuali diagnostici ).

Rossi Monti guarda allo stesso fenomeno come ad una alterazione del vissuto temporale che egli denomina con un neologismo, “ momentizzazione”, atto ad indicare una frammentazione della esperienza in tanti momenti che stentano ad organizzarsi in una storia ed in un progetto.

In ogni caso ricordiamoci, noi adulti, nella qualità di genitori o educatori, comunque operatori nell’ambito della salute mentale, del monito di Winnicot, il quale ci avvertiva che la creatività o, se volete, l’eudaimonia può svilupparsi se, ma solamente se, c’è qualcuno che sia capace di rispecchiarla.

Bibliografia

1. R.Biancoli: Appunti di Clinica- L’approccio psicoterapeutico di Erich Fromm www.erichfromm.it/Appclinica05.asp

2. Z.Bauman: Modernità liquida- Editori Laterza

3. A.Correale: Area traumatica e campo istituzionale- Borla Editore

4. Erich Fromm: L’arte di vivere- Mondatori

5. U.Galimberti: I miti del nostro tempo- Feltrinelli

6. U.Galimberti: L’ospite inquietante- Feltrinelli

7. S.Piro: Le tecniche della liberazione- Feltrinelli

8. J.Weiss: Come funziona la psicoterapia- Bollati Boringhieri

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