Decostruzione nosografica in un campo gruppale: peculiare rammendo di una vita nella tessitura dei sogni
Pubblicato da redazione
Fonte : “Decostruzione nosografica in un campo gruppale:peculiare rammendo di una vita nella tessitura dei sogni” di Gerardo Di Carlo e Lorenzo Mosca pubblicato in www.rivistaplexus.it
Le diagnosi di Rita
La documentazione sulla storia clinica di Rita inizia dal primo ricovero a Roma a fine dicembre 1992; dalla paziente ci sono state riferite notizie poco circostanziate rispetto ai precedenti contatti con i servizi di igiene mentale.
Dalle cartelle di ricovero si può osservare un’estrema volatilità dei quadri clinici, che variano sia tra i differenti servizi, sia all’interno dello stesso ricovero. Ripetutamente emerge la sensazione degli operatori sanitari di essere di fronte ad una donna che finge, che ha un’attitudine manipolativa e la cui sintomatologia varia secondo i sintomi che le vengono suggeriti. A queste intuizioni non fa seguito, però, un approfondimento che chiarisca la reale situazione di vita della paziente.
L’evoluzione delle diagnosi mostra una progressione da forme psicopatologiche più lievi (stato ansioso in disturbo della personalità) a quadri di psicosi grave, nonostante le sintomatologie descritte non segnalino un peggioramento così evidente nel tempo. Nel 2005 è stata effettuata una valutazione psicodiagnostica strutturata con test proiettivi, che conferma l’estrema gravità del disturbo di Rita: “le risultanze psicodiagnostiche evidenziano una condizione di ritardo mentale lieve (Q.I.= 68) nell’ambito di una strutturazione psicotica della personalità con caratteristiche di schizofrenia paranoide”.
I primi 15 anni di trattamenti psichiatrici, compreso il primo anno e mezzo di terapia con noi, sono fermi a questa rappresentazione. Di seguito esporremo la storia di vita di Rita così come lei stessa l’ha raccontata quando abbiamo cominciato a chiedergliela!
La storia di Rita
Rita nasce quarantuno anni fa a F., in provincia di Brindisi, primogenita di due fratelli (G e T) e due sorelle (A e An). Il padre è descritto come severissimo, manesco e intransigente, unica autorità in famiglia a cui nessuno, neanche la madre, poteva opporsi. Sembrano tutti costretti a subire il suo controllo e le sue angherie.
All’età di 21 anni Rita, insieme alla sorella A, che ne ha 19, invece di recarsi dal dentista in un paese vicino, prendono il treno per Bari: una piccola fuga, di cui diverse volte avevano parlato e che dovrebbe concludersi il giorno stesso. Giunte a Bari e spinte dalla paura di una violenta reazione paterna, prendono il primo treno in partenza dalla stazione: è il diretto per Roma. Alla stazione Termini mentre Rita telefona ad una vicina di casa, perché faccia da tramite col padre, A. viene avvicinata da due immigrati tunisini che subito presenta alla sorella; i due le invitano a seguirli e offrono loro il pranzo. Nei mesi che seguono le due sorelle rimangono a Roma, ciascuna convivendo con uno dei due tunisini; Rita comincia una relazione durata tre anni con M. (“era violento ma gli volevo bene”), con cui gestisce una birreria che diventa la loro fonte di reddito. Il compagno verrà in seguito arrestato per spaccio e rimpatriato e Rita, ripensando a quel momento in cui la sua vita è stata travolta dagli eventi, ci dice con le lacrime agli occhi: “da allora non ci ho capito più niente”.
Sola a Roma comincia a non dormire, a perdere i capelli e a credere di avere un brutto male che la fa deperire. Per questo vende la birreria e salva i suoi risparmi in banca. Si rivolge a numerosi medici sperando di essere aiutata a star meglio; si reca addirittura in Francia per un ricovero, ma torna quasi subito in Italia ed è in stato confusionale in treno quando viene ricoverata in regime di T.S.O. a Lecco. Da quel momento è un susseguirsi di ricoveri anche molto ravvicinati, volontari e non, che non alleviano le sue sofferenze, e di un tentativo di suicidio per defenestrazione in ospedale, finché non viene stabilmente seguita in un C.I.M. Segue diverse attività riabilitative, frequenta corsi di informatica, per cuoco e per parrucchiera, ma non riprenderà più a lavorare dopo la vendita della birreria. Riprende i contatti con i genitori, i quali a più riprese vengono a Roma a trovarla e alloggiano presso la sua nuova casa. Nel frattempo ottiene la pensione di invalidità grazie alla diagnosi di schizofrenia paranoide, fattale dalla curante al C.I.M.; in tempi recentissimi, a seguito dell’interessamento del padre, risulterà idonea anche per l’assegno per l’accompagno. Rita si rivolge al Day Hospital di Psichiatria del Policlinico Gemelli, dove la incontriamo per la prima volta, per rinnovare la certificazione dell’invalidità. Inizia un viaggio, un’esperienza terapeutica e umana che dura tuttora.
La decostruzione della diagnosi
Quando abbiamo visto per la prima volta Rita alcuni fattori hanno influito su quest’incontro. Il primo è stato l’inesperienza: quello che abbiamo fatto è stato prendere alla lettera le parole che ci venivano riferite e più non dimandare, in linea con quella psichiatria clinica che si contenta di fare domande standard, riempire questionari, tirare somme e così fare diagnosi. Il secondo fattore, figlio del primo, è stato affidarci alla mentalità che spesso viene insegnata agli specializzandi di Psichiatria, anche se il più delle volte si tratta di un sapere non esplicito e cioè che le malattie mentali sono cose che le persone hanno, come l’herpes o, con più finezza, sindromi ad eziologia ancora sconosciuta, ma ben delimitabili e diagnosticabili. Le conseguenze di un tale approccio sono molte, spesso semplificanti, talvolta nefaste: una cosificazione dell’essere umano, una sua riduzione a mero oggetto di studio e di manipolazioni. Il più delle volte le persone diventano le proprie diagnosi (il tale è schizofrenico, il talaltro è borderline etc.) e così sono le malattie mentali che possiedono le persone. Un paziente siffatto è un paziente sottratto al flusso del tempo e al succedersi di eventi nuovi; l’impossibilità di vederlo al di fuori degli schemi autoavverantisi delle diagnosi non consente di immaginare cambiamenti stravolgenti e men che meno remissioni (il discorso è tanto più valido quanto più la diagnosi si fa grave).
Inizialmente abbiamo trascritto in cartella i numerosi sintomi che lei ci riferiva, scritto poche righe sulla storia di vita ed impostato una pesante terapia farmacologica, con visite di controllo a cadenza all’incirca mensile. Durante queste visite Rita ci appariva ogni volta sempre uguale, ci raccontava sempre gli stessi sintomi, sempre gli stessi eventi. Ciononostante si è stabilita con l’andare del tempo un’alleanza fatta di simpatia e sincera dedizione ai nostri incontri, da ambo le parti; siamo convinti che questo periodo sia stato propedeutico allo stabilirsi della fiducia da parte di Rita e abbia permesso gli sviluppi successivi, quando la nostra relazione avrebbe cambiato marcia. In tal modo siamo andati avanti per circa un anno e mezzo, finché si è posta la scelta tra il continuare a seguirla oppure inviarla nuovamente ai Servizi di riferimento. La prima opzione significava dare spazio ai dubbi che sempre più spesso si insinuavano in noi circa la reale condizione psicopatologica di Rita. Cresceva la nostra pratica, la nostra esperienza e aumentava la nostra capacità di osservare meglio senza apporre subito etichette. Il passaggio che ci apprestavamo a compiere è iniziato con un transito vero e proprio (da un ambulatorio ospedaliero ad una stanza del Servizio di Psicoterapia) e con l’infittimento degli incontri, fino a stabilire una cadenza settimanale. Cominciare se così si può dire, vista la lunga gestazione, una psicoterapia con una persona con una diagnosi senza scampo, senza storia passata, e senza futuro, destinata all’eterno ritorno dell’uguale, è de facto, implicitamente, una decostruzione.
Primo obiettivo emerso in supervisione è stato ricostruire una storia credibile di questa donna, che ne raccontava una versione striminzita e poco attendibile nella sua linearità priva di tragico, una storia in cui la famiglia era scomparsa senza lasciare tracce. Facendo finalmente domande accurate e con un lavoro che ancora va avanti, la storia di Rita ha preso forma, gli eventi si sono concatenati, stupendo noi stessi ma anche lei (“queste cose non le ricordavo proprio”; “prima di voi non me le ha chieste nessuno”).
Secondo obiettivo è stato quello di utilizzare le scenografie oniriche per accedere proprio alle fattualità perdute in Rita. Desideriamo sottolineare un uso peculiare dei sogni: la scena onirica non è utilizzata come rimando all’intrapsichico, ma agli eventi concreti e sconnessi della vita di Rita. Se sogna un monopattino (v. sogno successivo) chiediamo se da bambina aveva un monopattino, chi glielo aveva regalato, dove lo usava, e così via. Entrambi questi obiettivi trovano una rappresentazione nel primo sogno del dr. Di Carlo, che dà avvio ad un intensa comunicazione, mediata dai sogni, all’interno del gruppo terapeutico.
Sogno del dr. Di Carlo fine gennaio 2008.
Io e il dr. Mosca, partiti da Roma in tandem, eravamo in Puglia. In una città che sembrava Brindisi prendevamo una strada statale che supponevo portasse a Taranto, ma che era sbagliata. Chiedevamo informazioni ad un gruppo di persone sul ciglio della strada che non ci aiutava granché e che ad un certo punto mi sembravano minacciosi. Lì vicino c’era una casa di campagna piena di gente dove riparavo il tandem. Ripartivamo e il tandem si scomponeva in due parti, poi riagganciate. Ritornati in città ci fermavamo in un centro commerciale a chiedere informazioni sulla strada: gli impiegati ci stampavano una cartina simile alla ricevuta di un ticket sanitario.
Ritornare al punto di partenza e ripercorrere il viaggio, approfondendo il contesto e le motivazioni alla sua origine, segna l’avvio del nuovo percorso. La condivisione di questo sogno in seduta ci consente sia di comunicarle il nostro intento, sia di aprire le porte alla dimensione onirica.
28/2/2008. Ero in casa con A. e un suo amico quando d’improvviso mi ritrovavo su un lago simile al Tevere a fare sci nautico su un monopattino (sic) con al mio fianco sempre A. Ci trainava una fune ed andavamo velocissimo (avevo paura). Arrivavamo infine alla riva e finiva il sogno.
Elementi come il monopattino e la presenza di A. aprono alla dimensione del gioco e alla sua condivisione con persone giovani e rassicuranti. Le associazioni conducono al padre che la portava a pattinare. Le facciamo notare come, nonostante la paura della velocità, riesca a raggiungere la riva, cioè un luogo sicuro. Si mostra un’immagine di Rita diversa da quella che generalmente comunica: emergono competenze e legami con persone che esulano dall’immagine di maschio padrone che aveva sempre dominato le sue descrizioni.
13/3/2008. C’è una festa di paese a Frosinone dove cucinano la pasta coi broccoli ma la fanno male; io lo faccio notare ai cuochi (non lavano la verdura).
18/3/2008. Stendo una pasta verde, strana, non so, forse fatta coi piselli. Due cinesi volevano rubarmela ma io avevo fame e non glielo permetto.
Questi sogni conducono al confronto tra tradizioni differenti e alla difficoltà di ritrovare nel Lazio ciò che aveva in Puglia; personaggi estranei alla sua cultura, inoltre, assumono atteggiamenti persecutori. Le associazioni fanno emergere la centralità del cibo e della cucina nella sua famiglia, in cui il padre portava assai spesso verdure dal mercato e la madre le cucinava. Rita comincia a parlare spesso di cucina e gradualmente prende coscienza di condividere quest’aspetto con i suoi genitori. Inizia inoltre con una certa regolarità a portarci delle pietanze che ha preparato.
2/4/2008. Ero a F., avevo fatto la spesa, due buste piene (c’era molto caffé), ma quando comincio a sistemarla nella dispensa mi accorgo che di caffé ce ne sono già due pacchi scaduti. Mia madre mi dice di non buttarlo e di prenderne un pacco. Avevo paura che mi facesse male perché scaduto, ma lei mi dice che il caffé, come l’olio, non scade.
Appare in modo esplicito la rilevanza degli insegnamenti e delle usanze familiari, che non “scadono” nonostante distanza, tempo ed eventi di vita.
Chiedere a Rita di ricostruire dolorosi passaggi esistenziali non è stato semplicemente scrivere una più accurata anamnesi, ma portare con fatica alla luce pezzi seclusi di sé, un rammendo di pezzi gettati nella cesta dalla magliaia che, a furia di strapparne via, si era ritrovata con un singolo striminzito lembo in mano. Ricostruire una storia è quindi comprendere e dare senso a una concatenazione di eventi apparentemente frammentati. Via via che Rita ha iniziato a descrivere nuove scene, episodi e ricordi, sono progressivamente e di molto diminuite le lamentele sui sintomi. Non ci ha più parlato di voci, di malattie che la rodono da dentro (quando vi accenna riesce non solo a discuterne ma anche a riderne a volte): adesso ci stupisce parlando di Super-Io, oppure con una folgorante citazione di Jung sulle persone nevrotiche in cui si era riconosciuta! Anche la maniera in cui si presenta è cambiata, è diventata più curata, benché conservi la propria originalità.
Un percorso ulteriore compiuto insieme è stato ed è di proporre a Rita continui rimandi alla vita che conduceva in Puglia, alle esperienze di quel periodo, alle figure della sua famiglia, eventi e persone che sembravano spariti in un troppo radicale tentativo di annullamento, che ovviamente si ritorceva contro di lei lasciandola senza origini, sola in una terra straniera e senza una terra in cui fosse possibile ritornare.
29/5/2008. Ero davanti ad un bar sulla strada di casa mia a F. con mio fratello G. Dovevamo tornare a casa, ma lui prende una strada di campagna. Io inizialmente lo seguo, ma è buio, non so dove vada questa strada e avevo paura che mi potesse fare del male. Decido di tornare indietro sui miei passi. Poi però ci ripenso, mi dispiace lasciare solo mio fratello, non so che fine possa fare, allora torno indietro, ma non lo trovo più. A questo punto vado verso casa seguendo la strada normale, arrivo in una piazza dove si svolge una festa di paese, incontro papà convinta che mi avrebbe rimproverato, invece non lo fa, chiede solo dove sia mio fratello.
19/6/2008. È un flash. Cercavo di parlare con mio padre, non c’era ansia, l’atmosfera era tranquilla. Cercavo di parlargli senza aggredirlo.
In entrambi i sogni si rafforza l’immagine di un padre più accessibile e dialogante. Il primo sogno apre alla storia del fratello G., anch’egli andato via di casa, ma deceduto precocemente in un incidente d’auto. Un giorno Rita ci ha spiegato che è grazie allo spirito del fratello se si è salvata dal suicidio tentato poco dopo la sua morte: i loro destini erano differenti. La storia dei fratelli viene spesso usata per ribadire l’inevitabilità della sua fuga: Rita afferma che rimanere a casa l’avrebbe condotta al ricovero in una Comunità Terapeutica come i due fratelli rimasti in Puglia. La partenza, così repentina da F. con l’iniziale annullamento dei contatti con la famiglia, sembra essere stata un trasloco davvero radicale che Rita ha fatto portandosi dietro l’intero paese, come se sul treno che la portava a Roma ci fosse tutta la sua casa, quindi come se non ci fosse stato alcun viaggio (cfr. sogno seguente).
Sogno del dr. Di Carlo del 10/10/2008. Sono in un appartamento che divido con mia sorella che mi mostra la sua stanza arredata con gusto. Scendiamo al piano di sotto e ci troviamo nello scompartimento di un treno. Una figura, infagottata in un cappotto nero, sta cercando di entrare dalla porta a vetri. So che ci vuole fare del male e per questo spingo mia sorella su per la scala, con l’intento di chiuderci a chiave nella stanza. L’uomo entra e dopo di lui altri tre figuri, sempre coi cappotti. In stanza i nostri aggressori hanno predisposto di avvelenarci tramite gas che si sono liberati nell’aria. Vedo la schiena di mia sorella immobile davanti a me e non posso chiudere la porta perché immobilizzato: capisco che siamo morti. In quel momento entra uno degli uomini col cappotto.
Questo sogno ci permette di rafforzare il tema della migrazione incompiuta, un trasloco mai effettuato del tutto che la posiziona in un non luogo, in cui ha perso la sintonia con le sue origini e non l’ha ancora trovata con la sua destinazione. Un tale assetto (straniera in terra straniera) dà spazio a istanze persecutorie aspecifiche, che lei attribuisce indistintamente tanto alle poche persone con cui si relaziona quanto a tutti gli estranei, riducendo drasticamente la possibilità di accedere ad una qualunque forma di intimità e di reciprocità.
Non potevamo saperlo all’inizio, ma di grande aiuto si è rivelata la circostanza assolutamente fortuita di costituire un gruppo con più terapeuti che pazienti! La possibilità di diversificare gli interventi, gli approcci e di giocare sulle differenze di appartenenza geografica si sono rivelate una proficua risorsa. L’essere il dr. Di Carlo pugliese ha consentito a Rita il rispecchiamento in una figura familiare, domestica, riconoscibile (“lei lo sa com’è da noi” etc.). Più complicato è stato inquadrare il dr. Mosca, perché nato all’estero in un altrove non conosciuto e quindi “perturbante”. Giocare sulle nostre appartenenze ci ha permesso di lavorare sul limite, sempre delicatissimo per lei, tra conosciuto e sconosciuto, tra amici e potenziali aggressori, tra lei e gli altri; l’inserimento di elementi nuovi, ma non temibili, le ha mostrato che la diversità le appare minacciosa finché è sconosciuta. La paranoia intesa come atteggiamento naturale e onnipresente di diffidenza dell’uomo nei confronti del simile (homo homini lupus), del paesano nei confronti del forestiero (colui che viene da fuori dei confini): con questa facciamo i conti con Rita, straniera a Roma e sradicata dalla sua Puglia, fuggiasca ma sempre in treno, lontano da casa ma mai partita davvero. Le nostre sedute sono il porto franco degli scambi tra i luoghi, dei traffici di senso, il luogo in cui imparare che gli altri sono semplicemente diversi ma comprensibili, il luogo in cui si può addirittura ridere dei propri timori. Ridere è l’antidoto naturale alla paranoia, provoca il crollo ontologico della paranoia.
Abbiamo cercato di scavare, nello scrivere questa relazione, entro l’epistemologia degli errori diagnostici che con tanta frequenza vengono ripetuti nell’uso automatico di categorie psicologiche e psicopatologiche. Ci siamo chiesti cosa fosse successo a Rita nei momenti di crisi che l’hanno portata a quei frequenti ricoveri con costruzione progressiva di una cronicizzazione semantica. Una suggestiva lettura possibile è che si sia trattato di un particolare stato crepuscolare: sotto la spinta di un pericolo mortale, nel crepuscolo le percezioni e le rappresentazioni psichiche possono essere notevolmente deformate da affetti violenti, restringendo notevolmente il contatto con la realtà multiforme. Forse Rita, come Biancaneve, fuggendo si è trovata in un luogo pieno di figure minacciose; lei stessa ha spesso descritto la sua situazione di vita come un “cartone animato”, aggiungendo “mi sembra di essere vissuta finora come in un Sogno”. E i sogni hanno curato il Sogno rendendo la vita una ipseità storica, parola complessa che significa solo “la vita di una persona”.
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