Area Traumatica e Campo Istituzionale
Pubblicato da redazione
Fonte: “Area Traumatica e Campo Istituzionale di Antonello Correale, Editore Borla
Sono passati ormai molti anni da quando la chiusura degli ospedali psichiatrici ha costretto psichiatri, psiçologi. infermieri, assistenti sociali e, in genere, ogni tipo di operatore psichiatrico, a misurarsi in,un faccia a faccia colla malattia mentale. Sono stati proposti innumerevoli convegni, congressi, giornate di studio. Da ogni parte si sono tentati e si tentano bilanci, valutazioni, sintesi. E da sempre si combatte una fondamentale battaglia, perché lo spirito di fondo di questa esperienza non venga perduto: la malattia mentale. come soggetto vivo, sofferente, tragico, ‘ma anche lucido, implacabile, non ipocrita, e il bisogno di un dialogo, che non sia paternalistico, pacificante, che non sia escludente, e che colga, della malattia mentale, il-tragiço potere di denuncia di una sofferenza indicibile di individui e della società che li circondano.
Nel momento attuale, dopo tanti anni, è possibile non tanto un bilancio, ma una verifica del punto in cui ci troviamo? E questa verifica, è possibile effettuarla, non tanto analizzando e valutando le opere realizzate, che sono innumerevoli, anche se ancora insufficienti. Centri, Comunità, strutture residenziali, reparti ospedalieri – o la letteratura prodotta – un’imponente massa di lavori, scritti, libri, insomma un’impressionante bibliografia di mole quasi infinita – ma l’atteggiamento mentale degli operatori?
La verifica che mi propongo di operare in questo libro è infatti prevalentemente interna agli operatori, medici
psicologi, educatori, assistenti sociali, infermieri, psicoterapeuti, a tutte le figure impegnate nell’assistenza. Posto che siamo pronti a combattere una strenua battaglia, perché la legge attuale mantenga intatto il suo spirito e le sue potenzialità innovative, ci dobbiamo però chiedere se il rapporto colla malattia mentale abbia cambiato qualcosa dentro di noi, nel nostro modo di sentirla, nel nostro modo di riconoscere al malato la specificità tragica e irriducibile del suo modo di essere.
Insomma, se l’effetto più importante e scientificamente rilevante dell’esperienza degli ultimi anni, è stato un faccia a faccia colla malattia mentale, questo faccia a faccia ha prodotto rilevanti trasformazioni negli operatori e nella società? O sembra che quanto più la malattia mentale venga allo scoperto, tanto più sia necessario, che gli operatori diventino sempre più consapevoli dell’effetto che la malattia mentale esercita su di loro, sulle loro emozioni, fantasie, senso della vita e delle cose, capacità di amare e di odiare, sviluppo di curiosità scientifica o chiusura in formule rigide o ossessive?
Vorrei dire subito che il quadro mi sembra molto difficile ‘da definire. Da un lato le realizzazioni sono imponenti. Dall’altro, chi gira per i servizi, ascolta i casi clinici, frequenta congressi e giornate di studio, non riesce a evitare l’impressione, che dietro il linguaggio un po’ compassato dei protocolli farmacologici e delle realizzazioni sociali e assistenziali, si percepisca, con una certa intensità, un elemento di fatica, di stupore quasi, per la insistenza con cui la malattia si ripropone e quasi un bisogno di rifugiarsi in visioni più rassicuranti. Nascono così i “disagiati psichici” al posto dei malati, i depressi al posto degli psicotici o quelle asettiche classificazioni clinico-farmacologiche, che pure utili ai fini descrittivi e normativi – linee guida, protocolli -lasciano spesso gli operatori in preda a sensazioni sgradevoli di approssimazione e ipersemplificazione.
La fatica che predomina nei servizi. viene spesso, anzi quasi sempre, attribuita a fenomeni di cattiva organizzazione, di scarsezza di risorse, di squilibrio tra domanda e offerta. Queste affermazioni sono vere e incontestabili, ma io sono convinto che ‘una parte ‘importante della fatica nasca anche dall’interno della persona stessa dell’operatore: il rapporto continuo colla psicosi e coi disturbi gravi del carattere, tende infatti a determinare negli operatori una fantasia angosciante di inesauribilità. Il desiderio insaturabile del borderline, la lontananza dal mondo dello psicotico, non sono soltanto esperienze vissute in certi momenti. Sono vuoti che lasciano un ricordo che non si satura mai, un terrore che il momento del vuoto ritorni, la paura che l’esperienza negativa continui ad agire nel ricordo come un fattore continuo e insopprimibile.
Potremmo dire, usando un linguaggio più ampio, che il sentimento dell’infinitezza”perseguita gli operatori, intendendo per infinitezza l’inesauribile riproporsi del ricordo angosciante e insuperabile del momento doloroso e insopportabile e l’apertura che questo momento determina verso un mondo senza limiti e,insieme, indefinito. Stare vicino a uno psicotico o a un grave borderline è come vivere vicino a una cascata, che riempie notte e giorno col suo scroscio gli orecchi degli abitanti della casa.
Un altro modo di definire l’infinitezza può essere utilizzato ricorrendo al senso delle vertigini. L’inesauribilità si propone all’osservatore come un abisso, una caduta,uno sprofondamento e spesso gli operatori danno l’impressione di doversi tenere attaccati a qualcosa per non cadere (il gruppo, una ideologia, la politica, lo stipendio).
Vorrei quindi proporre l’idea, che al di là delle questioni organizzative, la cui importanza non può comunque mai essere sottovalutata, la fatica che circola nei servizi provenga in grande parte da meccanismi di evitamento, quasi di tipo fobico, che gli operatori devono mettere in atto per fronteggiare questo specifico genere di infinitezza. Questi meccanismi di evitamento sono tanto più angoscianti e dolorosi, quanto più gli operatori sono invece costretti a rapporti intensi coi loro malati (visite a casa, ripetute telefonate, visite in ospedale, convivenza in comunità). Nasce da tutto questo (massima esperienza di contatto fisico, e al tempo stesso tentativi di evitamento emozionale) una contraddizione, il cui effetto sull’operatore e sul gruppo definisco di fatica. Frasi come “Non cambierà mai, è tempo sprecato, ritorna all’infinito sui suoi soliti modi” esprimono bene questo sentimento.
Va aggiunto inoltre che, parlando di intreccio inestricabile tra evitamento fobico e contatto ravvicinato e del corollario di questo intreccio, la fatica, non intendo esercitare una critica, ma indicare un fenomeno, a cui tutti gli operatori del settore, anche quelli più avvertiti – psicoanalisti compresi – vanno soggetti.
Questo libro si propone l’obiettivo di individuare, con la massima precisione possibile, questo drammatico scoglio, che sarebbe riduttivo definire soltanto come controtransferale e che sarebbe più utile considerare invececome prevalentemente esistenziale e globale e indicarne,se possibile, alcune possibili evoluzioni positive.
Nella prima parte del 1ibro,si esaminerà il gruppo degli operatori alla luce della domanda: come si può far circolare in un gruppo istituzionale questa tematica? Può un gruppo istituzionale deistituzionalizzarsi quel tanto, che permetta una fluidificazione di questi affetti,.senza che con ciò si perda il suo carattere di gruppo istituzionale?
Vorrei dire subito che, al momento attuale, la scelta non mi sembra più, come ai tempi dell’antipsichiatria; tra istituzione e non .istituzione, ma tra aspetti istituzionali e aspetti non istituzionali all’interno del gruppo istituzionale stesso. Come si vedrà, il paradosso risiede nel fatto che per essere fedele al suo compito istituzionale, il gruppo deve rinunciare, almeno in parte, alla sua istituzionalità.
Nella seconda parte, esamineremo più da vicino il problema clinico. Psicosi e borderline pongono drammaticamente il problema della posizione del trauma e della morte nella vita degli esseri umani. La morte, intesa più come lacerazione di continuità che come cessazione della vita biologica, sempre rinnegata e sempre ritornante, proietta il paziente quasi fuori dal mondo e lo situa nell’insopportabile posizione di esercitare sugli altri quel potere crudele e irrispettoso, che il paziente ha subito nella sua vita. È possibile che un terapeuta sopporti tutto questo? Senza rifugiarsi in facili formule – è bene che tutti i terapeuti siano stati analizzati – chi si sente di affermare che veramente qualunque analisi consenta di fronteggiare ,questo
tipo di angosce? Sembra più importante invocare, accanto all’analisi, o al posto dell’analisi, l’importanza dell’esperienza, ma di una vera esperienza, che permetta all’operatore di sapere di che cosa si parla,; quando si parla di morte psichica e estraniazione dalla vita.
Il gruppo degli operatori, nell’assetto specifico che proporrò, esercita su questi aspetti della questione una grande influenza. Ma è necessario che il gruppo faccia fluire al suo interno rappresentazioni e sentimenti insoliti, non familiari, e che la .circolazione di tali sentimenti non allaghi il gruppo, ostruendolo, ma sia premessa di ulteriori rappresentazioni e metafore.
Nell’ultima parte, esaminerò quali siano effettivamente le possibilità, per emozioni e pensieri di questo genere, di essere aiutati a esistere dal gruppo o di esserne invece esclusi e cortocircuitati.
Vorrei concludere questa introduzione con un’affermazione di carattere generale.
Ho detto che il terapeuta – qualunque .sia la sua natura professionale – deve conoscere l’impatto della morte sulla vita e non stupirci che il ricordo della morte, del vuoto, del caos, dia adito a vissuti sostanzialmente di insensibilità.
Di fronte a tematiche così tragiche, non basta la comprensione, l’empatia, l’appoggio e sono addirittura pericolose la fusione, l’assorbimento “panteistico”, l’immersione in una indifferenziata unità non discriminante. Al contrario, sempre più mi vado convincendo, che il malato mentale grave deve percepire con forza che il suo terapeuta è diverso da lui, che possiede un altro corpo, un’altra estensione, un altro sistema di memoria. La morte è di per sé inaffrontabile, impensabile e non è suscettibile di essere dotata di senso: quello che un altro – e non un doppione di me stesso, che sarebbe così candidato alla mia stessa morte – può fare, è assistere il malato’.a vedere come il pensiero della morte agisca continuamente sulla vita, come la spinga a rigidità o ad aperture, a un linguaggio fisso e ossessivo o ad un linguaggio metaforicamente
innovativo.
Si può insomma vedere insieme come la morte, il vuoto, il caos – e, come vedremo,l’area traumatica è strettamente connessa con questo tipo di esperienza – tenda a subire, oscillazioni continue di distanza, avvicinamenti o allontanamenti, tramite meccanismi che la presentificano o la tengono a bada e, più che altro, si può vedere insieme se l’esperienza della morte e della discontinuità ha distrutto il pensiero o ha lasciato vie possibili di sviluppo. Non si tratta insomma di conferire significati alla morte, ma di capire insieme l’effetto che la morte ha esercitato sul senso generale della propria vita. Accanto ai farmaci, alle istituzioni assistenziali e residenziali, questo compito fondamentale si impone nella terapia della malattia mentale: in assenza di questo, operatore e malato sono candidati a girare in tondo nel vortice dei loro meccanismi evitanti e fobici.
Ci soccorrono alcune testimonianze letterarie di eccezionale potenza. Nella “Montagna incantata” Thomas Mann ha indicato con grande efficacia che l’impatto della malattia può indurre, attraverso il dolore e talvolta la sconfitta, una più acuta capacità di cogliere dietro alle cose non solo la quotidianità letterale, ma un senso più nascosto e aperto a nuove connessioni e somiglianze.
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